TartaRugosa ha letto e scritto di: Duccio Demetrio (2021), All’antica. Una maniera di esistere, Raffaello Cortina, Milano

Da questo libro è bene si astengano coloro che fanno della velocità il loro mito, che ritengono il passato qualcosa di cui è meglio liberarsi, che sono assaliti dal desiderio di sbarazzarsi dalle cianfrusaglie collezionate negli anni della vita, che considerano Gozzano leader indiscusso delle cose di pessimo gusto, che leggono nel carpe diem unicamente la voluttà edonistica e il bel vivere, che dileggiano e deridono una modalità di esistere all’antica, come il titolo cita.

Perché in queste pagine, nell’antico, si vagola carezzando autobiografia, sociologia, etnografia, filosofia, poesia, iconografia, tutto ciò che “ci spinge ad amare e cercare il volto poetico delle cose, delle persone, dei paesi, delle ore e degli stati di grazia che la memoria, a nostra insaputa, ha saputo invece difendere per noi. Per fortuna senza chiederci il permesso”.

E poiché il rievocare trova sì supporto incoraggiante nelle parole, ma anche nelle immagini, ecco che ingentiliscono la densità delle pagine scritte, allentando la presa del pensiero, svariate icone scelte dall’autore “per il silenzio che le avvolge, per la compostezza dell’aspetto, per l’ineloquenza e la oltretemporalità promanante da ciascuna di esse”.

E’ bene inoltre precisare, prima di avviarsi a sondare tale sentimento, che: “Evocare l’antico non equivale a rimpiangere ingenui e nostalgici ritorni a questo o quel lontano passato e, tanto meno, da queste pagine si lanceranno invettive contro l’era digitale, sognando il ritorno alle penne d’oca, ai telefoni a gettone, ai treni a vapore”. Ma nemmeno ci si confonda con un revival dettato dalla moda, dove profumi d’altri tempi occhieggiano furbescamente all’avventore, millantando genuine attrattive in un tempo attuale troppo artificiale e sepolto da una modernità mal accettata.

Ben venga, al contrario, il saper prendersi il giusto tempo per rifugiarsi in quel luogo mentale dove sono custodite memorie gravide “di storie che si sono succedute provenendo all’infinito e a esso dirette, incuranti dei calendari”.

Non c’è bisogno di cercarlo, l’antico, perché è lui che ci abita e suscita inspiegabili echi emotivi, che forse ci giungono più chiari se consideriamo “che i ricordi di luoghi, case,stanze, giardini, oggetti della nostra infanzia ci appartengono affettivamente molto più di quanto potesse accadere a genitori e nonni…. Per noi, emotivamente, valevano di più poiché possedevano un passato, una doppia storia, erano intrisi delle narrazioni dei nostri cari”.

L’antico è senza tempo, è un sentimento che riecheggia qualcosa che si è perduto pur non avendolo mai né posseduto, né tanto meno vissuto: “Eppure, saperlo dentro di noi allevia ogni sofferenza temporanea. La sua figura indefinita va e viene, torna e ci rincuora. Ci dona il senso di appartenenza alla vita presente e non solo, come comunemente si crede, a quella già trascorsa”.

L’antico, ancora, lo possiamo ritrovare in un aggettivo oggi desueto – dabbene – che pure connota chi persegue un certo modo di essere, ovvero quelle belle e brave persone il cui “ottimismo pacato, trattenuto e non sospetto, ci accompagna a modi gentili e sempre cordiali in ogni circostanza. A tal punto che ci rivolgiamo a loro, nelle richieste d’aiuto, non con imbarazzo: poiché li sappiamo riflessivi, riservati e fidati, disponibili ad ascoltare e generosi. Solleciti e ospitali, leali e schietti non soltanto per un garbo naturale e spontaneo. Perché in costoro avverti anche la forza del carattere, temperamento, tempra vitale, tenacia … Come si diceva una volta: determinazione e fermezza, lungimiranza e perspicacia”. Doti che pare non si attaglino alla velocità della modernità, all’innovazione tecnologica che polverizza tutto ciò che non tiene il passo del suo procedere, ma che, viceversa, restituiscono un’immagine sfuocata e démodé di chi invece tenacemente persevera nel mantenere un certo stile di esistere, coltivando sobrietà nel fare e nel dire.

Ma tornando agli indaffarati del vivere attuale, i quali, travolti dall’inesorabilità del ritmo accelerato che li opprime, cercano consolazione o spensieratezza nel qui e ora dell’attimo fuggente, ecco proprio quegli impazienti corrono il rischio di smarrire per sempre quel frammento, deprivandolo della traccia, del segno che resta.

Invece “Quell’attimo non va colto nella sua singolarità ma in sequenza rispetto a un prima e a un dopo. A una durata sempre preceduta da altri attimi. Il carpe diem ritrova così il suo senso e la sua autentica entità fenomenica nell’unitarietà complessa del giorno. Dove l’attenzione va posta sulla necessità di non farsi sfuggire nulla nella prospettiva del giorno, di quelle ventiquattr’ore convenzionali che sono sufficienti a offrirci la sua entità ed esemplarità storica”.

Perchè il carpe diem racchiude valore infinito costituito non solo da ebbrezza e felicità fugaci, ma anche da attraversamenti perigliosi nelle terre del dolore, della disperazione, della perdita, del lutto, attimi questi da sigillare e da destinare a una memoria disposta a raccontarsi e offrirci nuovi modi d’essere nei giorni a venire.

L’antico è tutto ciò che rivendica con il nostro aiuto il diritto a perdurare finché se ne abbia rimembranza, a essere incluso durevolmente nella memoria. Non per perseguitarci inutilmente, ma anzi, per consentirci di vivere nella intima, segreta, tacita gioiosità di quanto, grazie a noi, può tentare di esistere ben oltre i limiti imposti dallo scorrere del tempo…. Con il passato di quelle cose umane o materiali che un gesto, un sogno, una passione misero al mondo, chiedendoci di prendercene cura”.

Ed è proprio il prendersene cura che ci conduce alla “maniera”: le sagge maniere di vivere, le buone maniere di essere ed esistere secondo un percorso ispirato alle virtù, “la scelta di un modo di vivere che diventa maniera nel momento in cui trascende gli aspetti soltanto modali, rivelando la propria intima natura filosofica, religiosa e spirituale, poetica”.

Di passo in passo ci spostiamo ancora fra le pagine trovando disseminati molteplici spunti per esplorare e, perché no, ri-scoprire un proprio modo d’essere all’antica, smanioso di “perdurare finché se ne abbia rimembranza, a essere incluso durevolmente nella memoria”.

Conclude il saggio una “speciale convocazione” di ventitré poesie dove “l’antico appare senza fretta, senza doverlo andare a cercare”.

In ognuna di esse, come lo stesso autore con prosa poetante evoca, il lettore potrà lentamente abbandonarsi, assaporare il risvegliarsi di ricordanze e stati d’animo da riportare alla luce, a cui finalmente ora, giunto alle ultime pagine, ha imparato a dare un nome.

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