ABBR. E OVVERO “L’ANATEMA DELLA PAROLA”

2017-02-02_003405

E’ giunto il momento di metterci un punto. Nel senso del punto fermo, quello che chiude un periodo prima di passare ad altro argomento.

Non il punto che non è seguito dalla maiuscola, che non richiede di inserire uno spazio, che gioca ad alternarsi fra singole lettere. Odio quel tipo di punto.

Attenta alla mia stessa essenza e brucia ogni mia libertà.

Potrò, finalmente, dar voce ai miei diritti? Di esistere, di allungarmi, di estendermi, di stiracchiarmi, di dispiegarmi, di srotolarmi nelle mie diverse lunghezze senza dover più incespicare nei punti che mi (s)troncano o sentirmi contratta in un’accozzaglia dura e impronunciabile di consonanti troppo promiscue?

Senza dovermi scervellare per capire se s.s. sta per strada statale, sua santità o Schutz-staffein; se p.s sta per pubblica sicurezza, post-scriptum o previdenza sociale, se a.c. sta per anno corrente, avanti Cristo o assegno circolare?

Basta. Reclamo il ritorno e la vicinanza degli amici virgola e punto e virgola, del punto esclamativo e di quello interrogativo, i buoni, vecchi e cari segni di interpunzione utili a regolare il mio suono e quello delle mie sorelle che con me costruiscono il senso delle frasi, del discorso, del linguaggio.

Voglio ritornare a essere tutta, intera, globale e illimitata.

Esigo la rotondità della a e della o, l’esilità della i, l’occhiello della e, la pervietà della u.

Pretendo il mio potere definitorio e la chiarezza di ciò che esprimo, senza ricorrere a barbarismi, sigle o acronimi che deturpano il valore del mio sussistere.

Basta una volta per tutte all’osceno utilizzo delle parentesi, quelle che un tempo racchiudevano i puntini di sospensione atti a segnalare, per citare un esempio, l’omissione di un passo all’interno di una citazione.

Da quando sono arrivate le insulse faccine che presumono di raffigurare le espressioni facciali umane, le sagge parentesi sono diventate rappresentanti di sensazione emotiva, anteposte o postposte ai due punti, ai trattini, a singole lettere alfabetiche o apostrofi.

:’-) piango amaramente. No, anzi, macché 😦 sono proprio contrariata.

Cedere il passo a segni grafici per raccontare l’inesauribile gamma delle emozioni?

S’, proprio loro, le emozioni, vita e colore della nostra esistenza, così inattese e impreviste, fugaci e mutevoli nelle loro variabili sfumature, fonti di impaccio o di  ispirazione sia negli abissi della disperazione che nelle vertigini della speranza.

ç_ç per dire triste? E come la  mettiamo con le diverse varianti della tristezza? Come disegniamo parole come pena, dolore, cupezza, malinconia, autocommiserazione, afflizione?

E’ solo la parola che dipinge, rischiara, rabbuia, intensifica, indebolisce, accentua, attenua, spiega e interpreta la complessità degli eventi e dei vissuti.

E non mi vengano a raccontare che le emoticon hanno rivoluzionato il modo di scrivere e di comunicare, solo perché hanno l’obiettivo di raggiungere l’empatia del faccia a faccia nelle tastiere informatiche.

Non mi si dica, per favore, che i nativi digitali sanno andare dritti al cuore , senza dilungarsi in sorpassate sfumature lessicali e semantiche.

Solo io, la parola, posso raccontare.

Solo io, la parola, posso rivelare.

Solo io, la parola, posso essere parlata o scritta.

Solo io, la parola, nel momento in cui sono detta, letta o scritta, divento creatura vivente, pulsante, eterna.

Senza interruzioni, senza blocchi, senza annullare l’attesa.

Mi amo. Forse sono egocentrica, o forse un po’ senile. Vivo nel rimpianto delle tavolette di cera, dei rotoli di papiro, dei fogli di carta.

Sono vecchia, ma non voglio morire.

Gioca con me, uomo, e condividi la mia protesta. Urlami:

“Ti guardo con riguardo”.

“Dò un senso al tuo dissenso”.

“Mi gusto il tuo disgusto”.

“Fiuto il tuo rifiuto”.

Riprenditi la parola, per favore. Fammi ancora sentire unica, insostituibile, preziosa.

Perché finché ci sono io, ci sarai anche tu.

Indissolubilmente uniti prima che il tuo cervello diventi un definitivo ammasso di neurochip.

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