TartaRugosa ha visto e scritto di: STILL LIFE (2013) regia di Uberto Paolini e Il mio ricordo degli eterni. Autobiografia, (2011) EMANUELE SEVERINO, Rizzoli

Il regista Uberto Paolini non ha una diretta discendenza dal più noto Pier Paolo, ma vanta comunque un’altrettanto nobile parentela, in quanto nipote di Luchino Visconti.

Il film Still life è la sua seconda prova di regista.

Martedì 21 gennaio 2020, Rai5 ha messo in onda questo film, nello stesso giorno in cui veniva data notizia della morte del filosofo Emanuele Severino (a distanza di quattro giorni dall’effettivo decesso, ma resa pubblica a funerali avvenuti secondo la volontà dello stesso Maestro).

Evento del tutto casuale ma, se considerato nell’ottica della sincronicità junghiana e del pensiero severiniano, assolutamente celebrativo della supremazia dell’Eterno.

John May è un impiegato comunale che si occupa della ricerca dei familiari di coloro che trapassano in condizioni di solitudine.

John May è una persona timida, sensibile, scrupolosa che indugia attentamente sui piccoli indizi trovati ogni volta che varca la soglia dell’abitazione di chi non c’è più.

Le sue mosse non sono dettate da curiosità morbose o protocolli d’ufficio. La sua personale vocazione va ben oltre: è l’umana ricerca della storia di chi ha affrontato la morte senza accompagnamento, privato dalla vicinanza di un affetto.

I colori della pellicola ci appaiono sfumati, più vicini al bianco/nero e appena ravvivati da tonalità grigio tortora e tenui pastelli, come a sottolineare la cupezza del compito assunto.

Pochissimi i dialoghi, più dense le immagini che sanno rappresentare lo svolgersi delle vicende esistenziali.

Entriamo in case da cui ancora traspira la vita di chi vi abitava: dalle foto incorniciate, a lettere ritrovate in un cassetto, a calze di nylon stese allineate ad asciugare sul filo della biancheria, a mutande appoggiate sul calorifero laddove bottiglie vuote testimoniano un trascorso di disperazione.

John May raccoglie indizi, ritaglia accuratamente fotografie che apposta in bell’ordine su un album dedicato che, nel corso del tempo, (22 anni) è diventato una sorta di “pictures of an exibition” sempre più consistente.

In questo rovistare nel passato c’è il desiderio di riallacciare legami allentati, di verificare le cause di quell’essere soli, di riconsegnare a chi rimane un ultimo ricordo.

Ma, ancor più struggente, i piccoli particolari di cui ogni singola vita è ricca, serviranno a John May a scrivere una necrologia personalizzato, un sermone individualizzato da consegnare e far leggere al prete durante la cerimonia funebre, in una chiesa vuota, dove l’unico presente, oltre all’officiante, è John May, solitario accompagnatore della salma anche al cimitero.

Altri personaggi compaiono nel film: addetti alle celle frigorifere, che ricordano a May che i giorni della ricerca dei superstiti stanno per scadere e la pratica in qualche modo va chiusa. E non sorprende il viso malinconico del nostro funzionario che appone sulla cartella il timbro “caso chiuso” nella maggior parte dei casi senza la soddisfazione di un esito positivo del suo lavoro.

Inaspettatamente la vita di May è scossa da un avviso crudele: il suo ufficio deve essere ridimensionato e poiché la sua presenza è giudicata inutile e costosa – “è troppo lento” nell’espletamento delle pratiche – sarà licenziato.

Sorpreso May incassa la notizia, ma chiede comunque qualche giorno di proroga per portare a compimento l’ultimo caso, quello di William Stoke, vecchio alcolista alloggiato nella casa di fronte alla sua.

Questa ultima ricerca lo farà risalire a Kelly la figlia di Stoke, ma da lui abbandonata molti anni prima. Per carpire ulteriori notizie, May riecupera anche vecchi amici di William e con loro si ritrova a condividere il prezzo richiesto per le informazioni, una bottiglia di whisky.

Kelly, raggiunta a Londra, prende atto della morte del padre e si oppone alla richiesta di presenziare al funerale. Si profila per May un’ulteriore e ultima archiviazione di una morte senza cordoglio. E’ nel suo ufficio per sistemare con estremo ordine i suoi incartamenti e uno squilllo di telefono lo distoglie da un gesto estremo.

E’ la voce di Kelly che ha cambiato idea e desidera incontrarlo.

Si apre una prospettiva insolita per John May: i colori della pellicola si riaccendono, sul suo viso mesto appare il sorriso, e l’emozione di accettare l’invito a bere qualcosa nel futuro sottolinea un nascente interesse fra i due.

Fin qui la storia. Ma che cosa tiene insieme la trama di questo denso film con il pensiero di Emanuele Severino?

Banale e riduttiva sarebbe la scelta di una happy end in cui lo sconforto del licenziamento viene ricompensato dall’amore grato di una figlia che ritrova il padre sparito grazie al distinto signore che si è fatto artefice del ricongiungimento.

La vita presenta eventi non programmabili e anche per lo spettatore pochi secondi sono sufficienti a capire che per John May non ci sarà un futuro.

Il suo funerale, seguito da nessuno, si svolgerà in concomitanza a quello di William, al cui feretro sono accodate tutte le persone che John ha raggiunto per darne la notizia.

Triste e amaro sarebbe questo finale su cui la cinepresa si sofferma: a pochi metri di distanza giacciono il “caso chiuso” di Stoke con un’ignara Kelly di nuovo vicino al padre e il tumulo di fredda terra nera che ricopre la bara di John nel deserto campo comune.

Scrive Emanuele Severino:

Poi, quando la vicenda terrena dell’uomo sarà giunta al proprio compimento, sarà necessario che ognuno faccia esperienza di tutte le esperienze altrui e che in ognuno appaia la Gioia infinita che ognuno di noi è nel profondo. Essa oltrepassa ogni dolore sperimentato dall’uomo” (p. 12)

Ed ecco che, ad uno ad uno, dal brullo paesaggio circostante, prendono corpo e movimento tutti coloro che in John May hanno trovato prossimità, compassione e umanità proprio nella condizione del compimento finale, quando tutto sembra destinato a diventare nulla.

Attorno al tumulo di John una moltitudine accorata accoglie con Gioia l’eterno suo esserci:

In pace riposano i cadaveri. Lasciandosi alle spalle il dolore e la morte, quella luce mostrerà all’infinito una Gioia sempre più infinita”.

LA TARTARUGA ROSSA (2016) – di Michael Dudok de Wit. Film Animazione, Francia, Belgio, 2016

Su un’isola deserta, la vita di un naufrago è scandita da misteriose apparizioni di una splendida tartaruga rossa, creatura dell’oceano imponente e rispettata. Un animale solitario e pacifico per definizione, portatore di irresistibile fascino e mistero: per lunghi periodi, infatti, scompare nell’immensità dell’oceano. Numerosi, inoltre, i racconti di unioni tra esseri umani e animali nella cultura giapponese: persino la nonna del primo imperatore, narra la leggenda, aveva le sembianze di uno squalo.