Suggerire a una tartaruga di viaggiare con solo bagaglio a mano è divertente, data la sua innata propensione a trascinarsi appresso l’intera casa. Ma, forse proprio per questo, il guscio può essere paragonato a una valigia, in cui, tolto il corpo, non rimane molto altro spazio in cui stipare “roba”.
Alla base del libro troviamo proprio questo concetto: la ricerca dell’essenza è intrecciata al sapersi liberare dal superfluo e a saper imparare ad agire per sottrazione.
Tutti noi abbiamo troppe cose che non ci servono o ci portano sulla strada sbagliata, bagagli troppo pesanti che ci inducono a scegliere percorsi più facili per non faticare troppo. Amiamo il segno più e il meno ci spaventa. Eppure ‘fare a meno’ è un verbo da coniugare con esultanza.
La metafora del viaggiare leggeri è quanto mai efficace se applicata all’umana predisposizione ad individuare il senso della propria esistenza.
L’autore sviluppa una serie di riflessioni grazie alla partecipazione ad un originale esperimento svolto in Corea del Sud, dove, per ostacolare l’elevato numero di suicidi, viene proposto un falso funerale con relativa chiusura in una bara, non prima di aver scritto su un foglio l’ultimo saluto alle persone più care e disposto la destinazioni dei propri beni materiali. La cerimonia comprende la vestizione con un abito funerario senza tasche.
Scopo di questo bizzarro rituale non è prepararsi a morire quanto, piuttosto, imparare a vivere.
Perché nel momento in cui ti confronti con la tua finitudine scopri di quante cose sei ingombro, sacrificando spesso a loro spazio prezioso per ciò che nella vita conta davvero.
In questa claustrofobica chiusura nascono in Romagnoli ricordi di eventi, aneddoti, cronache di vita che per il giornalista meritano di essere evocati per stimolare un pensiero critico sul nostro occidentale modello di vita.
Il recupero dell’operazione di sottrazione (togliere anziché aggiungere) aiuta a comprendere che i limiti in generale sono un vantaggio, non una diminuzione delle possibilità. Le convinzioni sono indumenti superflui. Come eliminarle? Per cominciare, le certezze. Quelle più definitive e solide, quindi più pesanti, quelle assolute: scaricarle pensando che invece è tutto relativo.
Nel bagaglio a mano, dove lo spazio è ridotto, ci metti non quello che ci sta, ma quello che vuoi. Quante volte tendiamo a caricarci di ciò che non serve o scegliere situazioni in cui non consideriamo che la fatica è superiore al risultato! Ancorati alla certezza che l’accumulo sia un simbolo di prestigio, di potere, o di un fittizio senso di godimento non ci accorgiamo di quanto nella nostra vita è in sovrappiù.
Un racconto autobiografico scuote la mia attenzione: si tratta della madre dell’autore e del suo acquisto di un bellissimo, morbido tappeto da bagno che, dopo essere stato esibito e aver raccolto molto entusiasmo dalla famiglia, viene inspiegabilmente riposto nel ripiano più alto di un ripostiglio. Forse per non sciuparlo, o per le grandi occasioni, o per tenerlo nel dovuto rispetto dato il suo pregio. E nel frattempo nel bagno di caso continuano a susseguirsi tappeti di scarsa qualità. Il piacere di poter usufruire dell’oggetto annientato dal piacere del possedere: le infinite, quasi tutte sbagliate, declinazioni del verbo possedere. Che per me significa: essere posseduti. Credi sia attivo, invece è passivo.
Come mi ci riconosco anch’io! Talvolta le tentazioni non sono respinte perché prevale il senso del bello, del possesso per l’appunto, ma poi, trascorso il momento del godimento, quell’oggetto resta lì per diverse ragioni: un senso di colpa per aver speso soldi per qualcosa di non indispensabile, la costatazione che non rispondeva a un’effettiva necessità, l’attesa di una speciale occasione che non arriverà mai. Lo scivolamento dei giorni pian piano fa passare quell’oggetto in second’ordine, fino a farti scordare quanto lo avevi falsamente ritenuto importante e, quindi, decidere di liberartene.
Il bagaglio a mano rivela il superfluo. Se torni e ce l’hai fatta con quel numero di capi, fogge e colori, significa che non hai davvero bisogno di quanto nel tuo guardaroba esorbita.
In realtà quello che più ci pesa addosso e che si radica nei nostri sogni sono le mancate soddisfazioni. Che farne? La soluzione più semplice è continuare a inseguirle, perché Hillman insegna, in ognuno di noi abita un daimon che attende solo di essere scoperto.
Hillman racconta di una bambina di colore salita su un palco di Harlem per un saggio di fine anno e annunciata come danzatrice che tirò la giacca del presentatore e disse a sorpresa: ‘Canto, invece!’ Era Ella Fitzgerald improvvisamente consapevole di sé.
Anche l’idea che abbiamo di noi stessi, il nostro egocentrismo può diventare zavorra.
Troppi si ritengono primattori di un copione che prevede solo comparse. Accendono a giorno stanze che implorano ombra, quiete, dimenticanza: le stanze in cui vegliamo sulla nostra irrinunciabile essenza.
Nell’esperimento coreano, prima di procedere alla chiusura della bara, presentano un video in cui l’esistenza umana, in media di 80 anni e sulla scorta di una serie di interviste, viene così sintetizzata:
23 anni a dormire, 20 a lavorare, 6 a mangiare, 5 a bere e a fumare, altri 5 aspettando un appuntamento, 4 a pensare, 228 giorni a lavarsi la faccia e i denti, 26 giocando con i figli, 18 a farsi il nodo alla cravatta. E, da ultimo, 46 ore di felicità.
Se questo è ciò che sta dentro la valigia della nostra vita, quando l’apriamo vorremmo trovare qualcosa in più di quelle poche 46 ore. Cerchiamolo avendo cura di ricordare sempre che la vita è imprevedibile e che è importante sapere che esiste sempre un piano B. Soprattutto quando incontriamo la parola “senza”.
La vita ci insegna a fare senza e a proseguire, resistere e migliorare proprio per questo. Perdere è, a volte, arricchirsi: scoprire che si avevano false necessità, affrancarsi da pesi e bisogni. S può rimanere senza qualcosa e stare meglio di prima, soprattutto se quella cosa la si è donata ad altri. Un vestito senza tasche porta già tutto: un’esistenza che basta a se stessa.