le TARTARUGHE Era, Olimpia, Eos, Minerva, Demetra nel loro nuovo “paradiso terrestre”. Grazie a: Cl., Gb., Os, 16 maggio 2022

LUOGHI del LARIO e oltre ...

Era (versione greca di giunone) è quella che si è vista di più e subito adocchiata anche dal vecchissimo e marpione giove. Molto interessata all’erba nuova, ha mangiato tarassaco e fiori di trifoglio contenta.

Olimpia (quella immediatamente più piccola di Era) sembra pure lei avere gradito. La piccolina mi ha lasciato qualche dubbio sul sesso, perchè prendendola in mano la piattaforma non appoggia completamente sul palmo della mano, sembra leggermente concavo, ma forse è ancora troppo piccola per capire. Comunque avevo già pensato al nome di apollo nel caso di un maschio, ma nel dubbio l’ho chiamata Eos (aurora), che mi pare il più adatto a un sesso non ben definito.

Sopra ci sono invece Minerva e Demetra che hanno subito adottato un belcumulone di terra ancora leggermente umido per la pioggia dell’altro ieri. Praticamente sono riuscita a vedere solo minerva perchè sia il maschio già lì, sia demetra…

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UNA TARTARUGA DI NOME SILVIO, in Franco Marcoaldi, Animali in versi, Einaudi, 2006

TRACCE e SENTIERI

Te lo ricordi? E’ stato ritornando

da una lunga camminata

quando in un campo d’erba medica

s’è all’improvviso rivelata.

Di medie dimensioni, lo scudo

bruno e giallo, tra tante tartarughe

era la più comune – non se ne avesse

a male – direi la più scontata.

Ma è stato sufficiente

che estroflettesse il capo,

azzardo necessario

ad afferrare l’erba,

perché ci intenerissimo

davanti a quella prova

di una spavalderia, per lei,

superba. Portiamocela a casa,

hai detto sorridendo.

Arricchirai il tuo parco

di un animale quieto

e malgré lui, fedele, doppio della tua casa – in casa di

testuggine stanziale. Poi l’hai

con delicatezza sollevata:

ritratta in carapace,

con le zampette tese

in cerca di un appiglio,

la nostra tartaruga non ha saputo

far di meglio che emettere un liquore

denso, biancastro e untuoso –

almeno in apparenza, seminale.

Cento, duecento metri e il liquido,

lungi dall’esaurirsi, sembrava un fontanile.

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TartaRugosa ha letto e scritto di: Pierre Bayard (2012), Come parlare di luoghi senza esserci mai stati, Traduzione di Riccardo Bentsik, Excelsior 1881, Milano

Ecco un motto molto accattivante : “Il miglior modo per parlare di un posto è di restarsene a casa”, che – per una tartaruga – calza alla perfezione.

Di nuovo Bayard, già incontrato con “Come parlare di un libro senza averlo mai letto”, che questa volta ci prova con i luoghi, dimostrando che l’ignoranza rispetto ad un argomento non sempre è un ostacolo per poterne parlare con competenza e che molti scrittori e pensatori preferiscono restare al proprio scrittoio piuttosto che affrontare i posti di cui desiderano parlare.

Fra i molti citati, ne scelgo alcuni.

Chi non conosce, almeno di nome, Marco Polo che, dopo aver soggiornato diciassette anni in Cina, scrive con dovizia e rigore dettagliate informazioni sulla vita quotidiana che lì si svolge, dall’amministrazione, alle pratiche religiose, gusti alimentari, costumi amorosi, flora e fauna. Curioso tuttavia che gli archivi imperiali consultati negli anni successivi non rechino alcuna testimonianza del suo passaggio e delle cariche importanti da Polo rivestite, come minuziosamente da lui descritto. E altrettanto singolare è che Polo non nomina mai le migliaia di chilometri della Grande Muraglia “che pure deve aver attraversato a più riprese durante le sue peregrinazioni”. Che tali dimenticanze confermino l’ipotesi di alcuni autori secondo i quali “il veneziano non si sarebbe mai spinto oltre Costantinopoli, dove la sua famiglia aveva un’impresa commerciale per la quale transitava un gran numero di viaggiatori in grado, con i loro racconti, di alimentare la sua fantasiosa creatività?

Che dire di Edouard Glissant, che sceglie di scrivere un libro sull’Isola di Pasqua senza poterci andare, perché troppo stanco e malato? Il metodo è semplice, basta poter contare su un informatore fidato, come nel caso di Sylvie Séma, moglie di Glissant.

A distanza, senza muoversi da casa, grazie alla documentazione fotografica, disegni e aneddoti inviati dalla moglie e grazie alla lettura di altri autori come Melville, Neruda, Borer,  Métraux, Glissant potrà tradurre le molteplici fonti in “descrizioni ricche e di grande rilievo, a testimonianza della profonda conoscenza dei luoghi da lui acquisita, di certo assai più puntuale di quella che avrebbe potuto ricavare da una permanenza fisica, sia pure prolungata, sul luogo, che non gli avrebbe necessariamente fornito una visione d’insieme”. In questo caso Bayard parla di dévoyage, ovvero l’assunzione del punto di vista dell’altro per farlo proprio affinché diventi “del tutto lecito per lui affermare di conoscere il posto, e forse ancor meglio di uno qualunque dei suoi abitanti, troppo vicino all’oggetto della propria percezione perché gli sia concesso di parlarne con il dovuto distacco”.

Interessante pure l’analisi del luogo condotta dagli antropologi che, per ragioni di studio, devono restare il più lungo possibile nelle terre scelte per osservare i costumi di coloro che le abitano. Bayard sceglie Margaret Mead e qui la mia corazza ha un sussulto, perché è proprio lei il trait-d’union dell’inizio della mia relazione amorosa con TartaRugoso, e spero non per i motivi che qui riporto. Mead concentra la sua ricerca sulle abitudini di vita dei Samoani e la parte che maggiormente ha attirato l’attenzione è stata quella relativa ai costumi sessuali: “La tesi centrale dell’opera, che ne ha decretato il successo mondiale, è che la sessualità samoana è molto più libera di quella degli Occidentali e soprattutto di quella dei nordamericani, i cui comportamenti sono repressi da proibizioni ormai interiorizzate”.

In questo caso il luogo è veramente esperito dalla viaggiatrice, non esistono quindi finzioni o rappresentazioni immaginarie e tuttavia vi può essere ugualmente la scrittura di una conoscenza falsata. A Mead, infatti, vengono contestate molte osservazioni che, secondo alcuni critici, derivano da una visione parziale, ideologica e condizionata da racconti impropri. In particolare: 1) Mead “avrebbe selezionato i  fatti e piegato la loro lettura in favore della teoria che voleva difendere”; 2) l’antropologa “per ragioni di comodità personale, decise di andare a stare vicino a una famiglia americana … e si privò delle possibilità di osservazione diretta che le avrebbero permesso di verificarle proprie tesi. La sua ignoranza della lingua samoana …aumentava la distanza con i soggetti che intendeva studiare”; 3) poiché possedeva solo alcuni rudimenti della lingua, “Mead fu costretta a fidarsi delle testimonianze delle sue giovani informatrici che andavano regolarmente a farle visita … e che le avrebbero delineato un mondo dai costumi aperti, con una gioia liberatrice accresciuta dal fatto che vivevano in un universo dai costumi particolarmente oppressivi”.

Siamo perciò anche in questo caso di fronte a un paese immaginario dove viene inventato (o proiettato) qualcosa che non esiste nella realtà, fatto che mette in discussione uno dei fondamenti dell’antropologia e della sociologia, ovvero l’osservazione partecipante. Qui  Bayard fa riferimento al testo di Perec ”La vita, istruzioni per l’uso” dove “si parla di un antropologo che segue le tracce della tribù Kubu e si interroga sulle misteriose ragioni dei continui spostamenti degli indigeni, prima di capire che costoro si comportavano così a causa della sua presenza e non facevano altro che cercare di sfuggirgli”.

Certo però che lo studio di Mead è servito a dare un contributo al dibattito sull’educazione degli adolescenti americani, nonché a fornire a TartaRugosa il pretesto di restituire il libro a TartaRugoso…

Sulla possibilità di parlare di luoghi usando solo l’immaginazione, Bayard cita l’esempio di Psalmanazar che, nel XVIII secolo a Londra, fece notevole scalpore per le sue descrizioni di Formosa, isola natale della quale rivelò informazioni che “sconvolgevano le comuni conoscenze in materia” fra cui anche la lingua che “suscitò grande interesse in molti intellettuali, fra cui Leibniz, e continuò a essere studiata dai linguisti in virtù del suo rigore”.

Peccato che Psalmanazar non arrivasse da Formosa, ma dalla Francia e avesse scelto quella falsa identità per poter circolare in Europa più liberamente.

La sua potente immaginazione gli aveva permesso di ricreare se stesso: “senza una potente immaginazione non si può pretendere di parlare in modo convincente di luoghi in cui non si è  mai stati. La capacità  di sognare e far sognare è essenziale per chi intenda descrivere un paese a sé sconosciuto e speri di trascinarvi con  il pensiero i propri auditori o i propri lettori”.

Fatto che succede  anche con Blaise Cendrars che esemplifica come si possa prendere il treno più famoso del mondo, la Transiberiana, senza muoversi dalla stazione.

Incalza Bayard “che l’essenziale, per uno scrittore, è di far viaggiare il lettore … Infatti non è il luogo … ma una dimensione altra, che potremmo chiamare spirito del luogo, ciò  a cui deve guardare lo scrittore…. Lo spirito del luogo richiede un processo di idealizzazione … le sue caratteristiche principali devono essere semplificate e rese universali, affinché, tramite la forza dell’invenzione della scrittura, possa divenire, tanto nel presente quanto nel futuro, proprietà immaginaria di tutti”.

Anche in questo libro ritorna un tema caro a Bayard, ovvero la capacità creativa e immaginativa che consente di oltrepassare la frontiera che separa la realtà dalla finzione: “Qualsiasi sia il  contesto di parola e di scrittura, l’invenzione del luogo adatto sarà dunque tanto più credibile quanto più vero sarà il soggetto che lo crea. Prima di ogni altra cosa è se stessi che si tratta di ascoltare, ed è alla scrittura e alla ricostruzione di sé che bisogna lasciarsi andare, se  si vuole attirare l’altro da sé verso il proprio paese interiore, per il tramite di un’esperienza universale”.

Un buon viatico per il mio prossimo immobile letargo, che si configura di gran movimento!