Rieccomi a Perec.
In questa fase storica in cui il mondo si misura con le costrizioni, una delle possibili forme di evasione è guardare a loro come opportunità.
Che è esattamente ciò che ha fatto Perec con gli altri fondatori dell’Ou.Li.Po. (laboratorio di letteratura potenziale tra cui annoverare anche Italo Calvino), ovvero considerare regole e restrizioni formulate a priori come incentivo alla creazione letteraria.
Più rigide sono le regole, maggiore è la libertà di sperimentare nuove forme espressive. Il concetto prevalente, in qualche modo rivoluzionario, sancisce che è meglio sottostare a norme scelte, piuttosto che doverne osservare altre di cui magari non si è nemmeno consapevoli.
Messa in soffitta l’ispirazione, l’invenzione parte dalle “catene”: la sfida quindi non sarà la produzione di un’opera letteraria come classicamente interpretata, bensì lo scoprire le potenzialità offerte dalle costrizioni e le nuove strutture di composizioni di linguaggi che ne verranno liberate.
Non so se questa modalità di ricerca è sufficiente a esercitare fascino su di me. Sono più propensa a optare per lo stato ipnotico in cui sprofondo quando mi perdo nelle liste apparentemente costituite da ossessive descrizioni di oggetti o situazioni banali, quando m’imbatto negli elenchi di innumerevoli parole, verbi, aggettivi che sembrano uscire dal nulla e che pure servono a donare un’immagine quasi pittorica di ciò che raccontano, quando il termine “osservazione” si traduce nell’impossibile tentativo di quello che Perec definirà “esaurimento di un luogo”, quando persino la disposizione geometrica delle parole sulla pagina diventano giochi di simmetrie palanti.
Oggetto di questo libro sono gli spazi in cui viviamo:
“il nostro sguardo percorre lo spazio e ci dà l’illusione del rilievo e della distanza. E’ proprio così che costruiamo lo spazio: con un alto e un basso, una sinistra e una destra, un davanti e un dietro, un vicino e un lontano”.
Nell’ordine, Perec esplora: la pagina, il letto, la camera, l’appartamento, il palazzo, la strada, il quartiere, la città, la campagna, il Paese, l’Europa, il mondo, lo spazio.
Per ognuna di queste voci entrano in gioco memorie (mi ricordo ..), chirurgiche enumerazioni di caratteristiche pertinenti allo spazio considerato, giochi numerici basati sulle distanze, propositi per ulteriori sviluppi di applicazioni di metodi.
Alcuni assaggi: abbiamo mai considerato il numero di letti in cui abbiamo dormito?
Perec lo fa:
“ho cominciato già da parecchi anni a fare l’inventario, il più esaustivo e preciso possibile, di tutti i Luoghi dove ho dormito. Per ora, non ho praticamente neanche cominciato a descriverli; ma credo di averli individuati quasi tutti; ce ne sono circa duecento (non se ne vengono ad aggiungere più di una mezza dozzina all’anno: sono diventato piuttosto casalingo). Non ho ancora deciso definitivamente in che modo li classificherò. Sicuramente non per ordine cronologico. Probabilmente neanche per ordine alfabetico (sebbene sia il solo ordine la cui pertinenza non debba essere giustificata). Forse secondo la loro disposizione geografica, il che accentuerebbe l’aspetto “Guida” di questo libro. O meglio, secondo una prospettiva tematica che potrebbe sfociare in una specie di tipologia delle camere da letto …”(elencate 9 categorie di camere in cui si è transitati per poco o molto tempo).
E valutare un aeroporto come possibile appartamento?:
“vivere per un mese in un aeroporto internazionale senza mai uscirne: il grosso delle attività vitali e la maggior parte delle attività sociali si possono svolgere agevolmente nell’ambito di un aeroporto internazionale: vi si trovano poltrone profonde e sedili non troppo scomodi, e spesso persino sale di riposo dove i viaggiatori in transito possono fare un sonnellino; vi si trovano W.C., alberghi diurni e, spesso, saune e bagni turchi: vi si trovano parrucchieri, pedicure, infermieri, massaggiatori e fisioterapisti, lustrascarpe, lavasecco espresso che si fanno ugualmente in quattro per riparare i tacchi e fare una copia delle chiavi, orologiai e ottici; vi si trovano ristoranti, bar e caffetterie, pellettieri e profumieri, fiorai, librai, venditori di dischi, tabaccai e confettieri, venditori di penne stilografiche e fotografi; vi si trovano negozi d’alimentari, cinema, un ufficio postale, servizi di segreteria volante e, ovviamente, una sfilza di banche (poiché è praticamente impossibile, al giorno d’oggi, vivere senza avere a che fare con una banca)”.
Abbiamo mai varcato le nostre porte con queste meditazioni?
“La porta rompe lo spazio, lo scinde, vieta l’osmosi, impone la compartimentazione: da un lato, ci sono io e casa mia, il privato, il domestico (o spazio sovraccarico delle mie proprietà: il mio letto, la mia moquette, il mio tavolo, la mia macchina da scrivere, i miei libri…) dall’altro, ci sono gli altri, il mondo, il pubblico, il politico. Non si può andare dall’uno all’altro lasciandosi scivolare,non si passa dall’uno all’altro, né in un senso, né nell’altro: ci vuole una parola d’ordine, bisogna oltrepassare la soglia, bisogna farsi riconoscere, bisogna comunicare, come il prigioniero comunica con il mondo esterno”.
Tra le lunghe liste di ciò che descrive lo spazio che non vorremmo mai abitare scelgo:
“L’inabitabile: il mare immondezzaio, le coste irte di filo spinato, la terra pelata, la terra carnaio, i mucchi di carcasse, i fiumi letamai, le città nauseabonde.
L’inabitabile: lo striminzito, l’irrespirabile, il piccolo, il meschino, il ristretto, il calcolare al centesimo.
L’inabitabile: il rinchiuso, il vietato, l’ingabbiato, l’inchiavistellato, i muri irti di cocci di bottiglia, gli spioncini, i blindaggi”
Mentre non potrò più pensare a una strada come semplice sinonimo di via in cui si abita o si transita:
“la strada è uno spazio fiancheggiato, generalmente sui suoi due lati più lunghi, da case; la strada è ciò che separa le case l’una dall’altra, ed è anche ciò che permette di andare da una casa all’altra, sia percorrendola, sia attraversandola. L’affiancamento parallelo di due serie di palazzi.
Al contrario dei palazzi che appartengono quasi sempre a qualcuno, le strade in linea di massima non appartengono a nessuno. Sono divise,abbastanza equamente, tra una zona riservata alle automobili, che viene chiamata carreggiata, e due zone,, evidentemente più strette, riservate ai pedoni, dette marciapiedi. .. Le zone di contatto tra la carreggiata e i marciapiedi permettono di posteggiare agli automobilisti che non desiderano più circolare …”.
Per chi volesse cimentarsi con questo tipo di scrittura, non mancano gli esercizi … Per me, che in questa parte dell’anno vivo nel sottosuolo, quale esercizio migliore del seguente?
“Sforzarsi di immaginare il più precisamente possibile, sotto la rete stradale, il groviglio delle fognature, il passaggio delle linee del metrò, la proliferazione invisibile e sotterranea dei condotti (elettricità, gas, linee della posta neumatica) senza la quale non ci sarebbe traccia di vita in superficie”.
Il mio alibi è che vivo in campagna … ma non mancano suggestioni perecchiane nemmeno su questo luogo.
Registro infine lo scopo ultimo di tutto questo forsennato listare:
“Scrivere: cercare meticolosamente di trattenere qualcosa, di far sopravvivere qualcosa: strappare qualche briciola precisa al vuoto che si scava, lasciare, da qualche parte, un solco, una traccia, un marchio o qualche segno”.
Pingback: TartaRugosa ha letto e scritto di Georges Perec (1974) “Specie di spazi”, traduzione di Roberta Delbono, Bollati Boringhieri – pubblicato in TartaRugosa – Coatesa sul Lario e dintorni