TartaRugosa ha letto e scritto di:
Cormac McCarthy (2007)
La strada, Einaudi
Traduzione di Martina Testa
Questo è un libro duro e spietato.
Solo grazie alla magistrale penna di McCarthy è possibile addentrarsi nel gorgo dell’apocalisse senza farsi troppo male.
Non c’è un “prima” che introduce allo scenario.
Si è subito immersi in una spettrale massa di cenere, di grigio. E fa sempre freddo, tanto freddo. Non esiste la luce. Anche quella del giorno è bianca, opaca, così come il colore del mare non è blu.
Qualsiasi rappresentazione umana sull’ipotesi di una catastrofe universale trova appagamento in queste 218 pagine costruite sulla maledizione di essere vivi.
Un uomo e un bambino catalizzano la trama della sopravvivenza. Una pistola sempre a portata di mano, solo una volta servita ad abbattere il nemico. L’ultimo proiettile potrebbe essere solo per difendere la propria dignità di essere umano ed evitare di soccombere per mano altrui: “Se ti trovano lo devi fare. Hai capito? Shh. Non piangere. Mi ascolti? Lo sai come si fa. Te la metti in bocca e la punti in su. Veloce e deciso. Hai capito?”
Un uomo, suo figlio e un simbolo di una modernità smarrita: un carrello del supermercato. Una residualità macabra da spingere lungo chilometri e chilometri di strade e sentieri alla ricerca del Sud.
Nella tragicità del faticoso percorso riemergono, quasi per caso, spezzoni di ricordi che allargano la conoscenza di quel padre e del di lui figlio. Una madre ha partorito poco dopo che tutto era successo e non ha resistito al poter verificare quel che sarebbe stato il seguito. E un padre che invece resiste per far portare il fuoco a quel bimbo, che vediamo lentamente maturare, sino ad assumere, se non sostituire, le responsabilità paterne. “Non tocca a te preoccuparti di tutto. Il bambino disse qualcosa che l’uomo non capì. Cosa?, disse. Il bambino alzò gli occhi, il viso sporco e bagnato. Sì, invece, disse. Tocca a me”.
Terra arida, ceneri di un mondo defunto che non esiste più, salvo funeree apparizioni di luoghi un tempo abitati, devastati e derubati da qualsiasi cosa utile alla sopravvivenza.
Anche in questo nuovo domani però, poche ma inquietanti persone fanno la loro comparsa, confermando l’eterna spartizione degli opposti. I buoni e i cattivi.
Lo spartiacque è la fame. Orribile. La frenetica caccia al commestibile, sempre più raro a trovarsi.
E per alcuni l’unica opportunità è l’altro che incrocia sul suo cammino.
Il bambino emaciato e consunto non appartiene a questa categoria. Ne è terrorizzato e sa che non ha più senso fingere di non vedere e non capire.
La pietà ha sempre su di lui il sopravvento: non si strappa di dosso la fame, ma nemmeno la visione di chi si trascina allo stremo.
Poche le righe di felicità alla scoperta di un segreto deposito dove giacciono “casse su casse di cibo in scatola. … Cos’è tutta questa roba, papà? E’ roba da mangiare”.
Ma poi occorre ripartire. Di nuovo il buio, il gelo, la pioggia, la cenere.
Padre, figlio e la desolazione.
Arriva il momento di congedarsi. L’estremo addio e l’impegno di portare il fuoco.
Potrebbe essere questa la fine della storia.
Ma la vita è più forte della morte.
McCarthy ci regala una briciola di illusione in un nuovo incontro.
“Come faccio a sapere che sei uno dei buoni? Non puoi. Devi fidarti. … Tu porti il fuoco? …Sì, portiamo il fuoco. Ci sono anche dei bambini? Sì. Anche un maschio? Abbiamo un maschio e una femmina… E non ve li siete mangiati. No. … Posso venire con voi? Sì che puoi. Allora OK. OK”.
Nel mistero di una cosa che non si può più rimettere a posto, la timida speranza di qualcosa che si può ancora fare.
Da leggere sull’onda delle vibranti note del Requiem di Mozart.
- Su questo libro, in evidente sincronicità, ha scritto anche Prisma