TartaRugosa ha letto e scritto di: ANDREA BAJANI (2016), Un bene al mondo Einaudi, Torino

TartaRugosa ha letto e scritto di:

Andrea Bajani (2016)

Un bene al mondo

Einaudi, Torino

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Se qualcuno ti chiedesse di dare un volto al dolore, o di descriverne l’odore, o di raccontare la sua forma, o di definirne il colore, che cosa sceglieresti con una sola parola?

E’ una domanda che mi sono posta rincorsa da migliaia di parole sparse nell’aria, non sempre sicure della loro destinazione, ma soltanto vogliose di essere dette. Perché, come scrive Bajani, “una parola, se non ha nessuno a cui dire una cosa, smette di vivere”.

Sul dolore molto si narra, con rabbia, con inquietudine, con disperazione, con frenesia, con disillusione, con saggezza, con ricordo e volontà.

Nell’esperienza personale, tuttavia, mentre si convive con esso in tempo reale, si fa una certa fatica a essere accoglienti e riconoscenti nei suoi confronti.

Il dolore è quella roba dal cui abbraccio vorresti scioglierti e al cui strazio sottrarti. Invano.

Bajani prova invece a guardarlo direttamente, dandogli un’identità ben precisa perché, anche se tu non lo sai, il dolore può già venirti a trovare quando sei nella culla, “la mamma era un’ombra grande distesa su un letto, il dolore un’ombra più piccola che lui cercava di mettere a fuoco. Il dolore gli faceva solletico ai piedi, e il bambino apriva la bocca e rideva”.

Ecco quindi che il dolore diventa un compagno di vita fedele, è felice di starti accanto, conosce tutto di te, ti ama e ti protegge.

Il dolore,qui, nel bambino,  simbolicamente assume la forma del cane. “Il dolore si porta a passeggio nei boschi, cosicché possa incontrare altri dolori, annusarli, riconoscerli e scodinzolare, oppure evitarli perché troppo ringhiosi”.

Questo l’esordio:

C’era un bambino che aveva un dolore da cui non voleva mai separarsi. Se lo portava dappertutto, ci attraversava il paese per andare a scuola tutte le mattine. Quando arrivava in classe,  il dolore si accucciava ai suoi piedi e per cinque ore se ne stava senza fiatare … Quando arrivava a casa … stendeva una tovaglia sul tavolo e mangiava. Il dolore montava sulla sedia accanto, e mentre mangiava, il bambino lo accarezzava. Quando c’erano i genitori, invece , il dolore stava tra i piedi del suo padrone. Di tanto in tanto, il bambino faceva sparire la mano sotto il tavolo e gli offriva un pezzo di pane. Il dolore  avvicinava il muso alla mano, e dopo gli leccava le dita”.

Il dolore del bambino ci appare un dolore docile, morbido, quieto.

Ma c’è anche il dolore grosso del padre che “difficilmente riusciva a tenerlo al guinzaglio. Perciò spesso si liberava con uno strappo e aggrediva chiunque gli passasse vicino. Apriva le fauci, latrava e dopo si sentiva l’urlo di chi era stato colpito”.

La violenza esiste. Esiste il male. Entrambi talvolta possono essere immaginati altrove, anche se troppo spesso si assopiscono dentro le pareti di casa.

Il paese dove vivevano il bambino, il suo dolore e i suoi genitori era un posto che non stava da nessuna parte … era tagliato in due dai binari del treno … Oltre i binari ci andava solo la polizia. Là abitavano dolori anche più feroci. Il bambino andava oltre i binari. Nonostante facesse paura a tutti, al bambino quel mondo sembrava abitato solo da persone gentili”.

Forse perché là, oltre i binari, abita anche la bambina sottile col suo dolore piccolo e spelacchiato che però quando esce lascia dall’altra parte della ferrovia, perché tanto sa che l’avrebbe subito ritrovato al ritorno.

Ma quello sarebbe stato il loro segreto e ogni volta il bambino non dice niente a nessuno “perché un segreto mostrato a tante persone è un segreto che muore”.

E proprio là, dove c’è la ferrovia con il cartello blu della stazione con scritto il nome del paese, era bello poter pensare che “un giorno sarebbero stati lì ad aspettare, pronti a partire. Sarebbero andati anche loro oltre il confine, anche se di quello che c’era dopo non sapevano niente”.

In quel luogo, nell’illusione, prendono forma le lettere mai scritte alla bambina sottile, per acchiappare con lei il sogno di salire sul treno e varcare il confine. Lì, in quelle lettere scritte solo col pensiero “il dolore era più allegro, e tutti e due gli occhi sorridevano quando il treno sfrecciava

Nella storia del bambino, anche il dolore feroce si può addomesticare. Quello del padre era molto grosso, per questo lo affida al figlio, visto che è così bravo con il proprio. Così il bambino aggancia il collare al suo guinzaglio e lo porta fuori.

I dolori del padre e del figlio per la prima volta giocarono insieme. Il dolore del padre era maldestro e forse era la prima volta che giocava davvero. Si alzava di poco da terra e subito ricadeva più pesante e affannato. Eppure alla fine il beneficio fu grande. Correre dietro gli uccelli, inseguire le farfalle che fingevano di essere foglie, fece venire al dolore del padre un muso più mite”.

Il dolore qualche volta scappa, cerca un’altra strada, un’altra casa da abitare, ma è complicato accettare la separazione: “Per molto tempo il dolore non si fece vedere, ma non abbandonò mai il suo padrone. Perché se è vero che il bambino non poteva vivere senza il suo dolore, era vero anche l’inverso: senza il bambino il dolore era un’ombra che girava per strada. .. Per questo, e nonostante ciò era successo, il dolore non avrebbe mai lasciato il bambino. Lo seguiva da lontano quando lo vedeva camminare in paese, e ogni sera dormiva sotto il suo balcone”.

Come tutti i dolori, anche il dolore del padre ha bisogno del suo vero padrone e quando il bambino glielo restituisce per uscire di casa, quando rientra trova una cosa brutta: “una signora disse che doveva farsi coraggio perché dentro c’era la polizia …Il poliziotto gli spiegò che non era successo niente di irreparabile. Era soltanto il dolore del padre che aveva avuto una crisi… disse di stare tranquillo perché avevano chiuso il padre e il suo dolore dentro una stanza”.

Cosa può fare il bambino se non diventare conchiglia in fondo all’abisso e aspettare?

Quella notte …trattenne il respiro e saltò … e scivolò fino in fondo all’abisso … prese la conchiglia tra le dita … Tornò verso la superficie lasciandosi trasportare…Sfondò il mare con un respiro che si spalancò e gli sembrò di respirare tutto il cielo … Di fronte c’era la casa … e tutto fu come era sempre stato, e tutto fu di nuovo per la prima volta”.

Ci si potrebbe domandare come va a finire questa storia.
Cosa ne è del bambino, del suo viaggio che va oltre il confine.

Cosa ne è della bambina sottile che rimane nel paese, oltre la ferrovia.

Cosa ne è delle parole disordinate che volano in una tormenta di suoni, in infinite lettere iniziate con un “caro” e una “cara”.

Cosa ne è del loro amore, delle loro paure, dei loro fedeli dolori.

Cosa ne è del fatto che non sono più bambini, ma adulti.

Ma nelle vie della città che è una qualsiasi città e del paese che non si sa dove sia, pure appaiono le stesse cose di sempre: le piazze, le chiese, le scuole, i negozi, i cimiteri, le stazioni.

Dentro quelle stazioni arrivano e partono treni e dentro i treni persone salgono e scendono, ma nella loro solitudine non sono mai veramente soli, perché il dolore sempre li accompagna tutti.

Qualche volta si allontana, ma poi ritorna perché ha bisogno di qualcuno che si occupi sul serio di lui.

Come la lettura delle parole scivolate nelle pagine di questo libro che, in un tempo senza tempo e in uno spazio senza spazio, a volte un po’ distanti, a volte appiccicate addosso, chiedono di essere abbracciate e amate perché vivono in ognuno di noi.

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