TartaRugosa ha letto e scritto di: Alessandro Vanoli (2018), Inverno. Il racconto dell’attesa, Il Mulino, Bologna

TartaRugosa ha letto e scritto di:

Alessandro Vanoli (2018)

Inverno. Il racconto dell’attesa

Il Mulino, Bologna

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Ora che è iniziata la primavera e l’ora legale si è insediata, il ricordo dell’inverno è sfumato, probabilmente anche grazie a una stagione insolitamente mite, priva di piogge, neve e gelo.

Molto lontana quindi dal racconto che Vanoli offre al lettore utilizzando un metodo originale, singolare e suggestivo: leggere la storia dell’umanità attraverso il freddo.

C’è una storia millenaria che ci riguarda e che ha a che vedere col freddo e col ghiaccio. Una storia che comincia quando non eravamo troppo diversi da altri animali e che poi si inoltra su per i secoli, raccontando di riti, feste, abitudini quotidiane, battaglie e tanto altro ancora”.

E nell’epoca in cui TartaRugosa è sprofondata nelle viscere della terra, l’ascolto di cosa accade in superficie corrisponde a vedere la realtà nascosta con la stessa fascinazione prodotta dalla fiaba raccontata di fronte al fuoco del camino, così come ce la propone l’autore. In tre tempi: l’inverno delle origini; l’inverno moderno; l’inverno dell’intimità e dell’attesa.

Come immaginare il primo inverno della storia? “Ovunque i ghiacciai scivolano dalle montagne più alte nelle valli sottostanti e scavano solchi profondi che un giorno saranno laghi. E più il freddo aumenta più i fiumi si seccano e i ghiacciai trattengono l’acqua e il terreno è gelato in profondità. E’ l’inverno della terra, l’ultima grande glaciazione prima che cominci a scorrere il tempo della storia, quello della civiltà e dell’agricoltura”.

E’ proprio grazie all’inverno che l’uomo si è mosso alla conquista del mondo, impara a cacciare, a coprirsi, ad accendere il fuoco. Ed è nel gelo dei suoi mesi che si affermano le prime tradizioni che ancora resistono ai giorni nostri: la nascita di Gesù, i re magi, l’epifania, lo scontro di potere tra papa e imperatore, il presepe, il carnevale, sono tutti eventi che hanno il freddo come protagonista e che ci mostrano come i nostri avi fossero diversi da noi. “Uomini i cui corpi per mesi e mesi non avevano altra possibilità che le basse temperature. Un inverno privo di rifugio e di luoghi caldi dove trascorrere il tempo. Quel freddo lungo e inarrestabile era forse parte di una relazione con il mondo e la natura che abbiamo perso per sempre”.

Così come oggi, XXI secolo, si discute intorno al riscaldamento della terra, qualche secolo fa – tra il 1570 e il 1685 – la temperatura subiva l’andamento opposto, calando di quasi due gradi centigradi. “Perché tutto questo accadesse ancora oggi nessuno è riuscito davvero a spiegarlo. Quel che è certo è che il mondo cambiò: inverni glaciali, estati piovose e primavere sferzate dalla grandine. La natura, insomma, stava cambiando”.

Qualche esempio: il lago di Costanza gelava interamente circa ogni dozzina di anni, così come succedeva ai fiumi Reno e Tamigi, o, per stare in casa nostra, si poteva raggiungere in carrozza Venezia da Mestre sulla laguna ghiacciata.

Ma l’interesse dello storico Vanoli non si sofferma solo sulla ricerca dei simboli religiosi, aprendo varchi di conoscenza sul problema della nascita di Cristo, l’invenzione del presepe, il festeggiamento di San Nicola nelle tradizioni germaniche e il digiuno del mese di Ramadan islamico.

Suggestiva la sua narrazione dei primi passi scientifici della medicina che, proprio grazie al freddo, riesce a prendere distanza da preghiere, fede e ciarlatani. Il primo teatro anatomico fondato da Gian Battista Da Monte è strettamente correlato al clima invernale: “le lezioni di anatomia, infatti, si tenevano principalmente d’inverno proprio per la migliore conservazione dei cadaveri, con una cerimonia pubblica che comprendeva la presenza di varie autorità oltre ai chirurghi e si snodava per ben tre giorni di aperture, dedicati rispettivamente al ventre, al torace e al cranio”.

Sempre nel campo delle scoperte, avvincente la descrizione del passaggio a nord-ovest. A poco più di un secolo dopo la scoperta dell’America, restava aperto il sogno dell’India e dell’Asia e con esso la ricerca del passaggio per accedervi. “Era ormai chiaro a tutti che il passaggio a nord-ovest esisteva, nascosto da qualche parte tra i mari artici, impraticabile durante i mesi invernali e pericoloso durante quelli estivi a causa dello scioglimento dei ghiacci. Per molto tempo l’Artico sarebbe rimasto un mistero e ancora più ignoto l’altro grande inverno geografico, l’Antartide”.

Solo nel febbraio 1775 il comandante inglese James Cook può scrivere:”Che possa esserci un continente di grande estensione vicino al polo io non lo nego:il freddo intensissimo, le numerose isole e le vaste zone di ghiaccio galleggiante, tutto tende a dimostrare che ci debba essere una terra a sud. Ma se queste sono le terre che abbiamo scoperto, che cosa possiamo aspettarci da quelle giacenti ancora più a sud, dato che possiamo ragionevolmente supporre di aver visto le migliori?”. Dobbiamo aspettare il 1911 prima di veder svettare sul ghiaccio la bandiera lasciata dal norvegese Amundsen che col suo equipaggio conquista finalmente l’Antartide.

Non mancano, come sfondo artistico, i riferimenti a grande opere pittoriche e musicali attinenti all’inverno. Le tele di Bruegel, Avercamp, Hokusai, Hiroshige, Monett, Chagall impreziosiscono la lettura del libro, mentre le note del concerto in fa minore di Vivaldi ci ricordano come lo stesso abbia descritto il calendario in musica, di cui Inverno costituisce l’ultimo dei quattro concerti solisti per violino.

In campo letterario chi meglio dei russi può spiegarci il rigore del Generale Inverno? Sulla scia della tormenta di neve che introduce la passione tra Anna Karenina e l’ufficiale Vronskij è inevitabile la citazione del collasso della Grande Armata napoleonica così ben descritta ancora da Tolstoj in Guerra e Pace “Battuti da continue interminabili tormente di neve, incapaci di trovare riparo o cibo se non vestendosi delle pellicce rubate ai moscoviti e uccidendo i propri animali, per freddo spesso si impazzì prima di morire di una morte atroce”. Una nuova tragedia nel secolo successivo la dobbiamo alla Prima guerra mondiale: “Immaginate un’ampia fascia, larga più o meno una quindicina di chilometri, che dalla Manica si estende sino alla frontiera tedesca fino a Basilea, letteralmente cosparsa di cadaveri e solcata da rozze sepolture, in cui fattorie, villaggi e cascinali sono mucchi informi di macerie annerite, in cui i campi, le strade e persino gli alberi sono scavati, straziati e distorti dalle granate e deturpati dalle carcasse di cavalli, buoi, pecore e capre, orribilmente smembrati e sfigurati e sparsi dappertutto… L’inverno fece diventare tutto questo ancora più terribile, trasformando le trincee in trappole mortali”.

Purtroppo dopo pochi decenni il gelo dell’inverno insegue ancora la guerra, questa volta in Russia, opprimendo gli italiani che si ritiravano dal Don, con il fiato che si gela sulla barba e sui baffi, come Rigoni Stern racconta nel Sergente nella neve.

Ormai siamo giunti ai giorni attuali.

La neve la conosciamo sui campi da sci, ben imbacuccati e pronti a rifugiarci al caldo dopo lo sport; il freddo lo lasciamo fuori dalla porta. Dentro, dalla stufa, siamo passati al riscaldamento centralizzato “Nel Vecchio come nel Nuovo Mondo esso mutò rapidamente il volto più intimo delle città, cambiando il senso delle feste e dello stare insieme”.

Che cosa ci è rimasto oggi dell’inverno?

Vanoli ci trascina nel White Christmas di Bing Crosby che ci fa pensare che ogni Natale è bianco, anche senza la neve. Riflette sulle feste come occasioni di consumismo, ma non si vuole ancorare a questa immagine. Dichiara infatti che “le feste non muoiono facilmente: si trasformano, forse, cambiano forme e riti, ma sopravvivono. Il Natale e l’inverno ci chiedono qualcosa e noi forse abbiamo qualcosa ancora da chiedere a loro”.

Questo post lo dedico a Luna, che per un giorno solo non è riuscita a salutare la primavera e ha voluto affidare all’inverno il suo trasferimento altrove.

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