TartaRugosa ha letto e scritto di:
Marlen Haushofer,
LA PARETE,
Edizioni E/O, 1^ edizione 1992, Roma, pp. 285,
Traduzione dal tedesco di Ingrid Harbeck
Quarant’anni, una gita in montagna, la vita che nel giro di poche ore si trasforma.
Un romanzo particolare che ad una prima lettura veloce e un po’ superficiale aveva ostinatamente catturato il mio pensiero sulle origini di quella parete misteriosa che sconvolge il destino della protagonista.
Una seconda lettura, invece, mi ha trascinato nella storia di questa donna di cui non si sa il nome (“Nessuno mi chiama con questo nome, dunque non esiste più”). Solo che è vedova e madre di due figlie.
Pochissime informazioni emergeranno della sua vita precedente a quell’incredibile pomeriggio che l’ha invece costretta, dopo due anni, a scrivere ciò che ha scritto: “Mi sono imposta questo compito per impedirmi di fissare il crepuscolo e di aver paura. Perché ho paura … La sola cosa che conta è scrivere, e non esistendo più altri discorsi, devo tener vivo questo monologo senza fine”.
Quello che invece è chiaro fin da subito è l’entità della tragedia, le cui cause non saranno mai svelate, se non attraverso sporadiche supposizioni assolutamente non verificabili.
Lo sconcertante avvenimento è che dopo la partenza dallo chalet di montagna di Luise, cognata, e Hugo, marito di Luise, per raggiungere il paese ed effettuare ordinarie incombenze, non vi sarà più il loro ritorno.
La protagonista col cane Lince il mattino seguente si incamminano nei pressi e apprendiamo dalla donna: “ …Girai attorno a una catasta di legna che mi ostruiva la vista, e lì trovai il cane seduto che gemeva. Dal muso gli colava della bava rossa … dopo pochi passi urtai con violenza la fronte, e indietreggiai barcollando … Tre volte mi alzai per convincermi che lì., a tre metri di distanza, ci fosse veramente qualcosa di invisibile, freddo, liscio a impedirmi di proseguire il cammino … La parete non era solo invisibile, ma anche infrangibile, data l’incredibile furia con cui i tronchi e le pietre l’avevano colpita”.
Il dilemma sull’origine della parete lascia lentamente spazio ad un’altra questione: costrizione o conquista di una nuova libertà? “Per dieci giorni mi ero stordita di lavoro, ma la parete stava sempre lì, e nessuno era venuto a prendermi. Non mi restava che affrontare finalmente la realtà … E naturalmente potevo restare qui e tentare di sopravvivere … Se oggi ripenso alla donna di prima, quella donna col piccolo mento che si affannava tanto per apparire più giovane, provo poca simpatia per lei”.
Ciò che si vede al di là della parete è solo evocatore di morte. Il mondo si è fermato. Ma dall’altra parte una donna vive e scopre una nuova se stessa grazie “alle piccole eccentricità di Hugo”, la compagnia di un cane, una mucca gravida e una gatta, un sacchetto di fagioli e patate “il tesoro più prezioso per il futuro”.
Come per tutti i processi di trasformazione, però, il costo è alto.
Occorre recuperare capacità sopite, organizzare il presente senza trascurare soluzioni ingegnose per affrontare il futuro, traslare la cura di sé attraverso la responsabilità della cura degli altri pochi essere viventi a lei vicini “ignoro cosa sarebbe successo, se la responsabilità per le mie bestie non mi avesse costretto a sbrigare perlomeno i lavori indispensabili”. Tutti gesti quotidiani essenziali, faticosi, dolorosi.
La natura è dura, aspra, spietata.
Pagina dopo pagina partecipi alla soddisfazione per le conquiste strappate con le unghie e alla disperazione per le perdite non previste, non prevedibili, non evitabili.
“La parete mi ha costretto a iniziare una vita tutta nuova, ma le cose che mi toccano veramente sono rimaste identiche a prima: la nascita, la morte, le stagioni, la crescita e il declino”.
Alcune critiche parlano di questa donna come di un Robinson Crosué al femminile.
Indubbiamente siamo al cospetto di un romanzo centrato sulle potenzialità del femminile, fortemente simbolico e di grande ricchezza psicologica.
La partita rimane aperta “… compresi di non potermene andare … Non potevo fuggire e piantare in asso i miei animali … Qualcosa di radicato nella mia natura mi rendeva impossibile abbandonare ciò che mi era stato affidato”.
La parete così irruente nelle prime pagine del diario, lentamente si dilegua nella narrazione fino ad essere presentata come “una cosa né viva, né morta, in verità non mi riguarda affatto per questo non la sogno”.
Ma tu lettore sai che esiste, così invisibile e così ostile.
Forse è proprio il sapere di quella parete che mi ha lasciato un senso di amarezza. O forse la cornacchia bianca, che tenta di chiudere il testo con un messaggio di speranza.
O forse ancora il sapere che nelle transizioni ci sei sempre immersa: “A volte desidererei non essere gravata dal peso della decisione. … Ma sono un essere umano e posso pensare e agire solo come tale”. Così sia.