“La tartaruga è l’animale più lento, ma è il primo che torna sempre a casa”, Fabrizio Caramagna

“La tartaruga è l’animale più lento,

ma è il primo che torna sempre a casa”

(Fabrizio Caramagna)

TartaRugosa ha letto e scritto di: Andrea Bajani (2025), L’anniversario, Feltrinelli, Milano

A distanza di circa dieci anni – quando nel suo libro Un bene al mondo Bajani guardava al dolore come a un cagnolino che ovunque ti segue, fedele – si delineano in questa sua nuova opera alcune ricorsività: in quel romanzo un dolore non addomesticato del padre che talora si trasforma in violenza incontrollata, una visita della polizia di fronte a una casa devastata dalla sua furia devastatrice, viaggi e tentativi di separazione da quel cane che, in ogni caso, pazientemente attende ritorno. Non si fa mai cenno alla figura materna.

Madre che invece ne L’anniversario compare “sfilettata” dall’ingombro paterno in una serie di passaggi narrativi acuminati:

Se non ho mai scritto di mia madre è perché per farlo va scorporata da mio padre, il che richiede un’attitudine chirurgica specifica, una freddezza della mano. Richiede lentezza e precisione, un bisturi grammaticale. … Scorporare mia madre da mio padre significa, letteralmente, sottrarla all’invasione con cui la figura di mio padre si è imposta sistematicamente al nostro immaginario …

La porzione di mondo che occupava mia madre era così trascurabile da non chiedere udienza. L’ingombro familiare era tutto per mio padre, che si era messo al centro della scena e aveva scritto per così dire la versione unica del romanzo familiare.

Una famiglia apparentemente come tante, appartata, riservata, ma così normale come normali ci vengono descritte le tante famiglie che finiscono sulla cronaca nera dei quotidiani, lasciando sbigottiti ignari vicini, che mai si sarebbero potuti immaginare quelle loro aberranti, tragiche azioni compiute fra le mura domestiche. …

Il racconto è del figlio, che cerca di ricostruire la sua saga familiare iniziando a liberare la voce al decimo anniversario dall’abbandono definitivo della casa dei genitori.

Sono ricordi di dettagli (su cui spesso dichiara non valga la pena di dilungarsi) che, per spiegare la natura dello strappo, emergono in forma implicita, per lasciare spazio a immagini che cercano di svelare come si origina (e persevera senza disinnescarsi) un matrimonio patriarcale.

Se emblematica è la figura del padre, autoritario dal retaggio fascista, carnefice a cui piace atteggiarsi a vittima, è la figura della madre a rivestire il prototipo della donna vessata così “convinta di non valere nulla da desiderarsi lei stessa di essere invisibile”. Due storie molto dissimili: quella del padre, figlio di una famiglia diseredata la cui madre per sopravvivere fa la donna delle pulizie; quella della madre, figlia della piccola borghesia benestante, educata al rispetto, alla riservatezza e allo studio.

Sarà proprio durante gli ultimi due anni del liceo che i due ragazzi si incontrano, ma mentre lei si iscrive all’università, lui, senza ambizioni, corteggia la giovane mettendola incinta per due volte, costringendola quindi ad abbandonare gli studii per diventare la donna che Lui desiderava.

… così mia madre cucinava, faceva le parole crociate e si addormentava sul divano mentre mio padre leggeva.

Quello che mia madre viveva era un patriarcato differente, più vicino a un totalitarismo: mio padre teneva i conti, guidava l’auto, stabiliva le linee dell’educazione di noi figli, si occupava della nostra istruzione, e a lei restava la gestione spicciola del cambio letti, cucina e pulizie.

Timida e sottomessa, rivela da subito la propensione ad assecondare in tutte le forme possibili l’arroganza del marito, come quando – per non arrivare tardi all’appuntamento e non trovando il suo orologio da polso – si presenta trafelata con una grossa sveglia da tavola.

O quando, trovato già chiuso il contatore dell’acqua prima della partenza per le vacanze, lava i denti nello sciacquone del water.

O quando, avvicinandosi l’orario del rientro dal lavoro del marito, congeda velocemente quelle poche amiche con cui, peraltro, fatica a confrontarsi se non per sporadici episodi aneddotici dei figli.

O, ancora, l’accettazione passiva di un’amante del marito- che ne invocava una necessità irrinunciabile – e verso la quale l’atto di ribellione, sollecitato dall’unica residua amica ,innesca una potenziale bomba: dopo aver lasciato un biglietto sul parabrezza dell’auto dell’amante quell’amicizia si dissolve e di quello che successe dopo col marito non è rimasta traccia.

L’amica rimasta era una minaccia all’istituzione totalitaria che lui aveva messo in piedi. Il potere eversivo dell’amica era dato dalla sua disperazione e da un femminismo istintivo, di azioni più che di parole. Il fatto che mia madre scendesse le scale, attraversasse la strada sulle strisce pedonali ed entrasse in un portone differente fu sufficiente per mio padre a percepire il rischio dell’incendio.

Nemmeno un breve periodo quasi felice di lavoro presso un supermercato, in sostituzione di maternità, riesce ad appagare il suo desiderio di autostima e parziale indipendenza economica, anzi diventa ulteriore motivo di umiliazione poiché:

“… l’impiego di commessa venne rubricato come svago, come l’intrattenimento di cui, dal punto di vita di mio padre, lei aveva un po’ misteriosamente manifestato l’esigenza. Fu dunque sottratto di ciò che gli era proprio, l’essere mia madre forza lavoro in cambio di un salario con cui dare il proprio contributo alla nostra famiglia”

Il telefono entra più volte simbolicamente in scena: in primo luogo perché il padre lo rifiuta, probabilmente a causa di un antico episodio di violenza riservato a un cliente mentre, nella capitale, faceva il commesso in una valigeria. In seguito alle minacce di ritorsione, l’allora giovane padre, terrorizzato, aveva deciso di trasferirsi da Roma al nord, lasciando moglie e figli a carico della sua di madre.

Decise allora di lasciare Roma e trasferirsi al nord in attesa di abituarsi alla novità prima di chiamare moglie e figli. La madre, predisposta all’inesistenza, non attecchì mai in quel paese, dove continuò a restare invisibile. Anche l’assenza del telefono, per timore di essere raggiunto dai nemici rendeva totale l’isolamento di mia madre”,

Quando finalmente l’apparecchio entra in casa,

venne intestato a mia madre. La ragione difensiva era identica al divieto precedente: non voleva essere intercettato. Chiunque fosse la persona da cui fuggiva, lui non doveva essere trovato”.

Ma il telefono è altresì immagine di liberazione: lo ritroviamo infatti come strumento privilegiato della psicoterapeuta cui il figlio si rivolge per chiedere aiuto. Chi svolge una professione di aiuto sa infatti che fissare un appuntamento non sempre è sufficiente e, se una persona si sente disperata, il telefono diventa prima fonte di soccorso.

Che il figlio necessiti di aiuto è inequivocabile: quando finalmente decide di allontanarsi da casa per rendersi indipendente, chiamare i genitori al telefono o saltuariamente visitarli in occasione delle feste comandate fa troppo male:

I crampi all’intestino cinque giorni a settimana, la tachicardia lungo la strada verso la provincia, la bottiglia di grappa accanto al telefono d casa per raggiungere l’altra sponda di una conversazione con i miei stordìmenti nel mezzo delle frasi, la necessità di infilare con due mani la chiave nella toppa della loro casa per contrastare il tremito, le dita bianche di paura, gli incubi notturni … tutto questo fino a 41 anni era lo stato delle cose”.

Secondo l’inclinazione dell’autore già emersa nei suoi precedenti romanzi, ci immergiamo nuovamente nella complessità delle dinamiche affettive, con un profondo sguardo introspettivo volto ad indagare senza infingimenti le ripercussioni che la violenza nata da un bisogno d’amore incapace di esprimersi possono generare nelle vere vittime innocenti, i figli delle coppie disfunzionali.

In questa disgraziata famiglia tutti i personaggi (mai identificati da un nome ma dal semplice grado di parentela) vivono il loro trauma:

La madre:

Lui voleva che lei fosse niente per potere, lui, essere qualcosa, e lei voleva essere niente perché essere niente era almeno qualcosa. … Trasformò la vita di sua moglie in un deserto senza vita all’orizzonte, Solo che lei era l’unica in grado di abitarlo, quel deserto, l’unica che aveva espresso una rinuncia così totale, così definitiva, a tutto”.

La sorella:

pensava alle sue faccende. Ci detestava: mio padre perché era un dittatore e me perchè, per quieto vivere, cioè per vigliaccheria, lo blandivo legittimando così il suo potere incontrastato e lasciando lei per giunta sola, quindi impossibilitata ad affrontarlo fino in fondo”.

Il padre:

Attraverso la violenza mio padre pretendeva amore. Il paradosso era che, per mio padre, nonostante fosse lui il colpevole, fosse ovvio essere lui a dover perdonare, in una misteriosa distribuzione a pioggia delle colpe..Era l’unico modo, se non per chiedere perdono, certo per venire assolto. E senza assoluzione si sentiva condannato al baratro assoluto. Questo era il compito implicito di mia madre,. Si faceva perdonare umiliandosi. Aveva dunque quel potere, di proteggerlo dal male che le faceva. O meglio, proteggerlo dal male che faceva a tutti noi”.

Il figlio:

Adesso, riguardando tutto con il dispositivo pensante del romanzo, c’è un elemento che si impone: in ogni scena – mio padre che colpisce il figlio o lo spinge contro il muro – mia madre non compare. O meglio, in ogni scena mia madre guarda altrove. Più che il corpo di mio padre che sovrasta, è quello di lei che si sottrae. Quel sottrarsi,per timidezza o per timore, è quello che mi resta”.

Porre fine a un circolo così avvelenato diventa possibile nell’unico modo scelto dal figlio e ricordato nel decennale dell’anniversario:

Dieci anni fa, quel giorno ho visto i miei genitori per l’ultima volta, Da allora ho messo su un muro inespugnabile, ho messo un oceano di mezzo. Sono stati i dieci anni migliori della mia vita”.

TartaRugosa ha letto e scritto di: Murakami Haruki (2024), La città e le sue mura incerte, Traduzione di Antonietta Pastore, Einaudi

Da quale parte mi trovavo in realtà? Cioè, quale parte della mia persona, quella di qua o quella di là, era il vero me stesso?

E’ in questo dilemma che Murakami ci trascina, lasciandoci col fiato sospeso sino all’ultima pagina: quale mistero nasconde quella strana città circondata da mura altissime, attraversata da un fiume su cui sorgono tre ponti di pietra e dove, nella piazza principale, domina un orologio senza lancette perché le stagioni mutano ma le ore non le conta nessuno?

Infatti l’orologio non è lì per mostrare l’ora. E’ lì per dire che il tempo non ha senso. Non si è fermato, non ha proprio senso”.

In quella strana città sono proibite le emozioni e non ci sono animali, ma solo uccelli in grado di oltrepassare le mura volando e zoccoli di mandrie di unicorni dal mantello dorato che calpestano le strade lastricate di pietra, gli unici viventi che possono entrare ed uscire dalla città grazie al severo Guardiano che vigila il portone dell’ingresso, quale protettore e regolatore tra mondo interno ed esterno alle mura.

Conosciamo da subito quella città grazie all’acerbo amore adolescenziale tra un lui di 17 anni e una lei sedicenne ( di entrambi non sapremo mai il nome, primo elemento costitutivo dell’identità) che però non è la vera lei, perché quella che compare è solo la sua ombra.

La vera lei, infatti, abita in quella misteriosa città e lavora in una biblioteca molto particolare poiché custodisce, in contenitori a forma di uovo, i sogni degli abitanti espulsi, accessibili solo al Lettore dei Sogni, l’unico in grado di far rivivere i sogni altrui e che potrebbe coincidere con l’amato lui, possessore dei requisiti adatti:

“Il tuo ruolo, nella biblioteca, è proteggere i vecchi sogni allineati sugli scaffali, custodirli con cura. Scegliere quelli che vanno presi, segnare sul registro quelli già letti. Aprire la porta d’ingresso poco prima del tramonto, accendere le lampade, e la stufa nella stagione fredda”.

E’ destino dell’ombra non avere vita durevole: la forte attrazione tra i due ragazzi, mantenuta anche attraverso un cospicuo contatto epistolare, improvvisamente si affievolisce, sbiadisce, fino a scomparire. Dell’ombra di lei non esisterà più traccia, ma il suo ricordo, intenso e doloroso, si impossesserà inesorabilmente, e per sempre, di quel diciassettenne innamorato, modificando la sua esistenza.

Sull’onda della forza dell’amore e alla continua ricerca del luogo immaginario descritto dall’ombra della perduta lei, il giovane protagonista riuscirà, senza nemmeno sapere come, a entrare nella città dalle mura incerte.

Una volta varcata la soglia, però, dovrà accettare le dure regole imposte dal Guardiano:per accedere deve rinunciare alla sua ombra, lasciarsi ferire gli occhi, accettare di non uscire più dalla città.

Queste le condizioni per vivere in quella realtà parallela e diventare Lettore dei Sogni nella biblioteca dove la ragazza effettivamente lavora, ma – scoprirà amaramente – senza conservare alcun ricordo della loro intensa storia d’amore.

Come è possibile vivere un amore non compiuto senza la memoria?

“Una persona senza ricordi possiamo dire che sia la stessa? … A quale dei due mondi volevo appartenere?”

Quando il soggiorno nella città si interrompe e il narrante torna nel mondo reale, il ricordo della ragazza e di ciò che non è potuto essere fra loro due diventa ossessione, impedendogli una crescita sentimentale serena e l’innamoramento di qualcuno diverso da lei.

Seguiamo in un tempo senza linearità lo sviluppo degli eventi, nell’enigmatica e surreale atmosfera di ciò che è già accaduto o è in corso o è nel futuro, sempre accompagnati dalla volontà del narrante di sfuggire alla realtà per trovare la propria identità, il suo vero sé più profondo.

I ricordi si erano allontanati col passare del tempo, oppure non erano mai esistiti? E quelli che conservavo, fino a dove corrispondevano alla realtà, da che punto in poi diventavano fantasie? In quale misura erano fatti davvero accaduti e in quale misura invenzioni?”

Con una perenne “sensazione di essere fuori posto … un insignificante pezzo di ricambio”, diventato adulto, il protagonista decide di abbandonare un insoddisfacente posto di lavoro. Un emblematico sogno lo indurrà a cercare impiego in una biblioteca (Il romanzo racchiude un inno alle biblioteche, ai libri, alla lettura, alla scrittura).

Ho sognato la biblioteca, la vedevo come se l’avessi intorno, in tutti i suoi dettagli. Lavoravo lì. Non era però la biblioteca della città dalle alte mura. Era una biblioteca normale, come ce ne sono ovunque. E sui suoi scaffali non erano allineati vecchi sogni, ma libri fatti di carta, con una copertina”.

In un piccolo paese sperduto fra le montagne, dopo essere stato selezionato per l’incarico dal direttore della biblioteca – l’originale sig. Koyasu vestito con la gonna – scoprirà di interagire con il suo fantasma, visibile solo ai suoi occhi e a quelli della fedele segretaria.

Il Sig. Koyasu ha usato il suo denaro per questa impresa, innanzitutto perché possedere e gestire una biblioteca era da sempre il suo sogno. Creare un posto speciale dall’atmosfera accogliente, radunarvi una gran quantità di libri che gli utenti potessero prendere e leggere in libertà … questo era il piccolo mondo ideale del sig. Koyasu. Anzi, il suo piccolo universo.

Anche il Sig. Koyasu ha alle spalle una drammatica vicenda d’amore: il suo bambino morto per un incidente e il suicidio della moglie spegneranno i suoi desideri e la gioia di vivere, lasciando spazio solo all’amore per i libri e la lettura.

Gli incontri di Koyasu col suo nuovo successore, inizialmente giustificati per aiutarlo ad acquisire il passaggio di informazioni, diventeranno sempre più intimi e il fantasma dovrà rispondere a domande sul perché il protagonista, dopo aver agognato l’ingresso nella città dalle alte mura, la abbandona, guidandolo così verso una migliore comprensione del suo animo:

Tuttavia, da quanto mi ha raccontato, mi verrebbe da pensare: non è che magari, in realtà, lei desiderava tutto quello che le è accaduto? Se è successo, è perché il suo cuore, benché lei non ne fosse consapevole, lo voleva. Anzi, non è vero neanche questo. Lei ha lucidamente deciso, di sua volontà, di restare in quella città enigmatica. Però la sua volontà vera non lo desiderava. In un angolo in fondo al suo cuore lei voleva uscirne e tornare in questo mondo.

In un continuo superamento di confini fra sogno, realtà, fantasmi, ombre parlanti, misteri, oltre al fantasma del bibliotecario incontreremo una barista, anche lei in fuga dal suo passato, e un ragazzo autistico che indossa un’inseparabile felpa col disegno di un sottomarino giallo e la scritta Yellow submarine.

Assisteremo alla faticosa nascita di una relazione fra la barista e il narrante:
Le nostre esperienze di vita avevano molto in comune, così tra lei e me si è creata una certa familiarità. Eravamo due forestieri, due persone sole, arrivate come spinte dal vento in una piccola città tra i monti del Nord. Saremmo riusciti a mettere radici? Anche questo non era sicuro”.

Il freddo, la neve, il gelo, la pioggia, il buio costituiscono spesso il fondale scenografico del romanzo e, nel mondo reale, segnano la cadenza delle stagioni, mentre nella città dalle alte mura, dove il tempo per gli esseri umani è fermo sempre allo stesso punto, sono gli unicorni a ritmare il tempo, morendo stremati dal clima polare durante l’inverno e uccidendosi nei combattimenti per l’accoppiamento durante la primavera.

Un’atmosfera rarefatta permea l’alternarsi di molteplici sentimenti, solitudine, nostalgia, malinconia, memoria, morte: ogni soggetto ha il suo lutto da elaborare, ma senza declinare in uno sbocco distruttivo. Ognuno è alla ricerca di una nuova meta da raggiungere, nel rispetto dei propri limiti. La ricerca della propria identità è il punto focale di ogni attore della storia, che gioca con la propria ombra senza preoccuparsi troppo dei confini tra conscio e inconscio, speranza e illusione, immaginazione, realtà e sogno.

Emerge inoltre, nello stile di Murakami, il tema del doppio: il sé che si riflette nello sguardo dell’altro. In tal senso, che ruolo riveste M**, il ragazzo autistico di circa sedici, diciassette anni?

Anche lui è affascinato dai libri: “si sedeva sempre allo stesso tavolo vicino alla finestra e si metteva subito a leggere con espressione concentrata. A parte voltare pagina ogni tanto, non si muoveva quasi. Nutriva sicuramente un grande passione per i libri”.

Memorizzare ogni contenuto è l’unica grande abilità visibile di M**, considerato che non parla con nessuno e solo a pochi rivolge l’unica domanda relativa alla data di nascita per poter calcolare il giorno della settimana corrispondente alla venuta al mondo (la indovina sempre).

Anche M** si sente fuori posto nel mondo reale e lo dimostrerà disegnando una mappa quasi precisa della città dalle alte mura dove vuol essere accompagnato dal protagonista.

Devo a ogni costo diventare il Lettore dei sogni. Assumerò la carica al tuo posto. E ’l’unica cosa che ti chiedo. … Quindi voglio diventare tutt’uno con te. In tal modo potrei andare a leggere ogni giorno i vecchi sogni, come se fossi te … Diventando tutt’uno con me, sarai te stesso più di prima, in modo più vero e più naturale. Non te ne pentirai, te lo garantisco. E quando penserai che sarà arrivato il momento di andartene, lo potrai fare”.

Rieccoci di nuovo dentro la città dalle alte mura, mura incerte, mura che si spostano autonomamente, perché i confini tra interno ed esterno sono in perenne movimento

Può darsi che una realtà non sia una sola. La realtà è forse qualcosa che noi dobbiamo scegliere fra tante possibilità …cosa è reale e cosa non lo è.? ..esiste davvero un muro divisorio tra la realtà e l’irrealtà?

Nell’incipiente primavera, qualcosa turba il narrante nonostante la buona riuscita della simbiosi con Yellow submarine.

Sembra che qualcosa dentro di me si stia alterando. Ma non capisco di quale alterazione si tratti, che senso abbia tutto questo. Sto brancolando nel buio

E’ giunto il momento della scelta: “se lo si desidera con tutto il cuore” quel contro-mondo oltre le barriere del tempo, popolato da unicorni e da persone senza ombra, né memoria, né curiosità, può essere definitivamente abbandonato. L’ombra, fedelmente in attesa dall’altra parte del muro, è pronta per il ricongiungimento.

TartaRugosa ha letto e scritto di: Hanif Kureishi (2024), In frantumi, Bompiani, Traduzione di Gioia Guerzoni

Hanif Kureishi è scrittore, drammaturgo, autore di testi teatrali e sceneggiatore di film che abbiamo visto e amato (fra cui My beautiful laundrette, Sammy e Rose vanno a letto), nonché autore di numerosi romanzi adattati a film che hanno ricevuto prestigiosi riconoscimenti.

Due anni fa, nella giornata di Santo Stefano, in vacanza a Roma, cade rovinosamente, riportando gravi lesioni alla colonna vertebrale e perdendo il controllo di gran parte del corpo. Dopo quella caduta Hanif non può più camminare e compiere qualsiasi azione senza l’aiuto altrui.

6 gennaio 2023 – 26. dicembre 2023 è il periodo durante il quale, quotidianamente, suo figlio Carlo e la compagna Isabella sostituiranno le sue mani, scrivendo sotto dettatura i dispacci che Hanif vuole raccontare per descrivere il drastico cambiamento della sua vita.

Esordio amaro, il suo: “io non pensavo al passato quanto al futuro, a tutto quello che mi era stato sottratto, a tutte le cose che volevo fare”. L’odissea che deve attraversare, tuttavia, non è di sola disperazione. Nella sua testimonianza riconosciamo lo stile ironico, pungente, schietto che lo caratterizza e la ricerca, fra alti e bassi, di esercitare la sua creatività, nonostante tutto:

Vorrei che quello che mi è capitato non fosse mai successo, ma non c’è famiglia al mondo che possa sottrarsi alla catastrofe o al disastro. Però da queste pause inaspettate devono nascere nuove occasioni di creatività”.

Quando tutto diventa complicato e non puoi fare nulla, nemmeno grattarti la testa, per vincere la noia dell’immobilità e l’angoscia della paralisi, sarà la forza del ricordo a riempire le ore pesanti della solitudine, soprattutto durante le assenze degli affetti che intorno a lui si prodigano nel corso delle sue degenze nei diversi ospedali:

Gli eventi del passato riemergono apparentemente a caso. Se non hai futuro,il passato viene a trovarti”.

Molti gli aneddoti che si rincorrono pagina dopo pagina. Senza censure e senza mezzi termini, sono frequenti gli episodi dedicati alle cure ricevute, alla professionalità dei vari operatori che lo circondano, alla descrizione delle operazioni più intime che, nei momenti di maggior ottimismo, assumono una tonalità quasi divertente:

Scusatemi un attimo, devo fare il clistere”.

Il mio corpo viene invaso di continuo .. qualcuno mi infila un ago nel braccio, mentre un’altra infermiera mi fa una puntura nella pancia e un terzo mi infila un tubo nel culo. … in un’altra stanza un uomo mi colpisce venti volte in testa con una grande racchetta da ping pong magnetica, che pare mi faccia bene.

Mi hanno toccato più sconosciuti negli ultimi nove mesi che in tutta la mia vita”.

Non mancano però i periodi dello scoramento e della fatica di riconoscere ciò che è diventato:

E’ un’agonia essere me stesso”.

Pakistano, scrittore, storpio, chi sono ora”?

Nella consapevolezza che la nuova condizione probabilmente resterà permanente. Kureishi si aggrappa a quanto più gli è caro: la scrittura e gli episodi dell’infanzia durante i quali, ancor prima di iniziare, aveva già definito la strada da percorrere:

Un giorno, mentre guardavo fuori dalla finestra a scuola, mi sono definito scrittore”.

Riannoda i fili con il passato, riportando alla luce il padre, aspirante romanziere circondato da libri, la depressione della madre, i dibattiti sul significato e la pratica della scrittura, il paragone con la cultura degli anni della ribellione e della contestazione, quando anche lui stesso deve confrontarsi col ruolo di genitore:

-“ho scoperto che la paternità era più catastrofica che meravigliosa” …

Con i miei figli ho passato delle serate divertenti a base di coca, e ci sono amici che prendono l’MDMA con i loro figli … i miei ragazzi però mi hanno introdotto ai funghi allucinogni. …La gente non dovrebbe essere traumatizzata dal sesso o dalle droghe, bisognerebbe insegnare a tutti ad apprezzarle come piaceri fondamentali”

Ora, nella malattia, può confessare a se stesso di essere “orgoglioso di dipendere da persone che mi amano”, poiché l’evento occorso ha sbaragliato la vita di tutta la famiglia, oltre che la propria, e non può non riconoscere che in questa sua tenace lotta per accettare la nuova identità, figli, ex moglie e la nuova compagna (che ha accettato la sua proposta di matrimonio) costituiscono, insieme agli amici, una preziosa e insostituibile rete di sostegno.

In questa sua nuova esistenza fra le corsie degli ospedali scopre inoltre la rivalutazione della conversazione:

Da quando ho avuto l’incidente la mia vita è cambiata, e passo il tempo a parlare con le persone. La conversazione è una cosa inutile nel senso migliore del termine, non ci si guadagna nulla, non offre nessun vantaggio materiale. C’è solo il piacere di star lì con un altro essere umano, di ascoltarlo, di uno scambio effimero che non ha molto altro significato al di là di una gratificazione temporanea condivisa.

Alle persone piace parlare, vogliono raccontare di sé, vogliono che gli altri le conoscano”.

Fra frustrazione e ironia, fra italia e Inghilterra, si avvicina finalmente lo sperato, e al contempo temuto, ritorno a casa, luogo da riadattare per accoglierlo con la sua disabilità, ma privandolo della sicurezza di poter contare in ogni momento sull’apporto professionale degli operatori addetti alle cure.

A casa sarà tutto diverso. Se ci penso mi rendo conto che non sono in grado di fare quasi niente da solo….Quando penso al futuro la portata della mia disabilità mi è sempre più chiara”.

Il diario di Kureishi, di straordinaria forza emotiva, si conclude a un anno esatto dall’incidente, consegnando al lettore un uomo ancora in frantumi -” io non dimentico, che sono ancora un uomo a pezzi con un corpo in frantumi” -. ma la cui vita è illuminata dalla presenza di chi gli vuole bene e che, come lui, si adopera per adattarsi a un qui e ora che non si sa come evolverà:

Cambiamo di continuo, impossibile tornare indietro. Il mio mondo ha preso male una curva mentre prima filava via dritto: è stato distrutto, rifatto e alterato e io non posso farci niente. Ma io non mi voglio lasciar andare: di tutto questo voglio fare qualcosa”.

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TartaRugosa ha letto e scritto di: Laura Imai Messina (2024), Tutti gli indirizzi perduti, Einaudi, Torino

Di Awashima – minuscola isola del Mare interno di Seto – e del suo Ufficio Postale alla Deriva, Laura Imai Messina aveva già accennato nel suo libro Giappone a colori: un ufficio tinto di grigio, il colore della solitudine, destinato a ricevere lettere indirizzate a persone che non le leggeranno mai.

Quel luogo ora ritorna ad avere un ruolo primario nel suo ultimo romanzo, letteralmente divorato, e che, inevitabilmente, mi trascina verso un altro indimenticabile luogo – il telefono del vento – anch’esso diventato sua opera dal titolo Quel che affidiamo al vento.

Prima di addentrarsi nel romanzo, è utile conoscere la storia della nascita: un vecchio ufficio postale ormai in disuso venne ceduto per una manifestazione artistica, nata con l’obiettivo di rivitalizzare le isole sempre più spopolate del Mar del Giappone. Una giovane studentessa dell’Università delle Arti, Saya Kubota, propose di creare un’installazione adibita alla raccolta di tutte le lettere spedite a chi un indirizzo non lo possiede e al loro archivio in cassette postali oscillanti al soffitto che, emettendo il suono delle onde in movimento, avrebbero simulato quello della deriva (da cui il nome di “Ufficio Postale alla Deriva”).

Ogni visitatore avrebbe potuto lasciare un messaggio scritto, ma anche leggere o sfogliare quelli archiviati e, ancora, appropriarsene nel caso avesse percepito un’analogia con la propria storia, diventando quindi simbolicamente il destinatario che quella missiva cercava.

Nakata Katsuhisa è il direttore di questo Ufficio: ha novant’anni e mantiene caparbiamente aperto un luogo destinato ad essere chiuso alla fine della Triennale, per la quale era stato realizzato.

Incredibilmente, infatti, l’Ufficio Postale alla Deriva ha raggiunto una popolarità tale da attraversare tutto il globo: in undici anni di attività sono giunte più di 60.000 lettere dai più disparati contenuti, sensazioni, pensieri, emozioni che vogliono essere narrate anche senza poter essere recapitate all’interlocutore prescelto.

Grazie all’interesse di Laura Imai Messina e alla sua profonda e introspettiva capacità letteraria e poetica, apriamo il suo libro ed arriveremo in questa piccola isola di non più di 150 abitanti nel momento in cui la protagonista Risa vi approda, proritariamente per creare un archivio delle lettere senza indirizzo che si sono accatastate nel corso del tempo – “Awashima è l’indirizzo che ha preso in carica tutti gli indirizzi perduti della terra”, – ma anche perché:

c’era un altro motivo … esisteva la possibilità concreta che ad Awashima fossero arrivate proprio dal suo passato parole indirizzate a lei soltanto”.

Scopriremo lentamente la sua storia: Risa è figlia di un padre postino, scrupoloso e attento affinché nessuna delle lettere andasse perduta, da cui eredita la stessa dedizione in tutto ciò che fa (lo impariamo dalle prime pagine, quando ancora bambina si perde per consegnare una lettera) e di una madre imperfetta, che le ha instillato paure profonde relativamente alla maternità e all’angoscia di diventare lei stessa portatrice della sua malattia psichica, di origine ignota.

Madre cui ha dovuto rinunciare sin da piccola:
La fatica di vivere di sua madre era una cosa che usciva dai cartoni del latte la mattina a colazione, che si depositava insieme alla polvere sui libri di suo padre, qualcosa che ti trovavi nel bel mezzo della cena mentre lei si accasciava con il volto affondato in una minestra, o ancora all’alba quando serviva andare a recuperarla perché vagava da una stanza all’altra con la borsa a tracolla, i piedi scalzi e recitando il proprio nome, data e luogo di nascita come fosse alla frontiera”.

Era però quella stessa madre che l’aveva spinta a “credere che quanto non si vede, non si tocca e non possiede un nome possa essere persino più importante di ciò che invece si vede, si tocca e ha una voce dedicata nel vocabolario … e che è dall’incontro con gli sconosciuti che può nascere lo straordinario”.

Risa, grazie alla professione paterna e alla sua sensibilità, ha sempre avuto un rapporto speciale con le lettere, soprattutto per quelle che, per motivi diversi, erano candidate al macero e da lui salvate, addolorato da quella fine poco gloriosa.

Già da ragazzina gli aveva posto delle domande sulle origini di quegli scritti:

– “Ma perché le persone scrivono queste lettere se poi non c’è nessuno a leggerle? Lo sanno che le lettere non arriveranno da nessuna parte, no?”

– “Sì, lo sanno. Lo fanno perché, immagino, scrivere le fa sentire bene” … “Sono messaggi in bottiglia lanciati senza troppe illusioni nel mare, tutto il senso dello scrivere queste lettere è precisamente scriverle. Scriverle per scriverle, non perché vengano lette”.

Ulteriore obiettivo, pertanto, è portare all’Ufficio Postale anche tutte le lettere mai recapitate, conservate dal padre.

L’incontro con il direttore dell’Ufficio, il novantaduenne Baba, risveglia quelle sensazioni. Lo stupore dell’uomo nel verificare che ogni giorno arrivavano nuove lettere da tutte le parti del mondo gli fa abbandonare l’idea di una ‘stramberia’ letta sui giornali e finita lì, avviandolo ad analoga conclusione del padre di Risa:

“… le persone hanno bisogno di scrivere. Ho capito che, per alcune di loro, farlo coincide con sopravvivere ci sono persone che vivono meglio quando scrivono all’amante perduto, al padre defunto, al figlio malato oppure a se stesse, nel presente o nel passato … i bambini scrivono ai giocattoli che hanno smarrito, o ai compagni con cui hanno litigato, o agli animali di casa quando scompaiono, pongono a se stessi delle domande enormi e apprendono così la morte”.

Leggendo le lettere, Risa entra nella vita di chi le scrive, scopre le interconnessioni, si imbatte in emozioni profonde. Impara anche a conoscere i residenti dell’isola, le loro abitudini, l’attaccamento a un luogo che va sempre più spopolandosi.

Scopre altresì che il tempo sospeso con l’incarico all l’Università si allunga in continuazione, e la causa non è legata esclusivamente alla complessità della catalogazione.

C’è Takuto e la sua scelta di vivere nell’isola per sempre: la sua discrezione non è disgiunta da un’attenzione continua verso Risa e “al suo sguardo interrogativo sulle cose”.

Una relazione che cresce silenziosamente, nonostante le paure inconfessabili di Risa.

Commoventi interludi epistolari compaiono fra i diversi capitoli della storia, aperture di anime verso persone, luoghi, animali, vegetali, oggetti, velati di nostalgia, malinconia, rabbia, perdono, interrogativi, pensieri, ricordi …

Risa riuscirà, alla fine, a ritrovare le tanto desiderate lettere della madre.

Una ricerca e un ritrovamento dolorosi, pagati a duro costo, ma necessari, come succede per ogni transizione incontrata nel cammino della vita.

Da quel pomeriggio di giugno… avvertì soprattutto il desiderio di tornare a catalogare le lettere rimaste inevase e di leggere quelle recapitate all’ufficio postale alla deriva durante quel periodo. L’idea di riprendere l’incarico all’università, invece, la teneva lontana. Non tentò nemmeno un momento di ingannarsi: la vecchia vita era finita”.

Ma la storia non poteva finire senza che un altro cerchio si chiudesse e così, come per incanto, Risa troverà fra la moltitudine di lettere quella inaspettata, quella che parla proprio di lei e a lei, e sulla cui busta compare il nome del mittente. Questa volta l’indirizzo non è andato perduto. Si tratta solo di decidere a quale parte di Risa quel messaggio era rivolto.

p.s.: L’Ufficio Postale alla Deriva è aperto dal 2022 il secondo e quarto sabato di ogni mese dalle 13 alle 16. Se hai qualcosa da scrivere ecco il suo indirizzo: c/o Hyoryu Yubinkyoku 1317-2 Takumacho Awashima, Mitoyo Kagawa 769-1108 Japan

Tartarugosa ha letto e scritto di: Vittorio Lingiardi (2024), Corpo, umano, Einaudi, Torino

Essere un corpo, avere un corpo.

Il corpo, il nostro Io, il nostro primo Tu, come scrive Lingiardi, specificando le sue intenzioni nel realizzare quest’opera:

Ho voluto attraversare il corpo, organo per organo, per costruire una creatura composita e personale, fatta con le mie curiosità, le mie conoscenze, le mie idiosincrasie”.

E l’attraversamento si traduce in una danza leggiadra fra organi, parti, apparati minuziosamente scandagliati non solo dal punto di vista anatomico, fisiologico e patologico, ma impreziositi anche con “immagini-sensazioni-sostanze” suscitate dalle suggestioni di una moltitudine di dettagli mutuati da poesia, letteratura, musica, arte, cinema, mitologia, leggende, ricordi personali che guideranno “lo sguardo dove non guardiamo, ma dove appare il sorprendente e abita lo stupore”.

Da non trascurare inoltre la ricerca storica, antropologica e politica che ha caratterizzato l’evoluzione del corpo nel corso dei secoli, un autentico viaggio nelle sue perenni trasformazioni e percezioni. Un corpo reale e tangibile: ipercontrollato, giudicato, modificato o, viceversa, un corpo destinato a svanire: ripudiato, desiderato diverso nelle disforie di genere, virtualizzato. Un corpo alla ricerca del suo “essere” in tutte le teorie filosofiche e psicologiche generatesi intorno al rapporto tra mente e corpo.

Il mondo sensoriale inizia a formarsi ancor prima della nascita….Una volta nati, sono le sensazioni fisiche a definire il rapporto con noi stessi e ciò che ci circonda….la nostra esperienza del corpo, inoltre, è influenzata dalle aspettative e dalle esperienze di chi ci ha cresciuto, dalle nostre identificazioni e interiorizzazioni Per questo possiamo dire che il nostro corpo è anche la storia di chi ci ha preceduto”.

Non inganni la poderosa lista elencata nella sezione “Il corpo dettagliato” dove, nell’ordine, si susseguono: cuore, pelle, seno, occhi, naso, lingua, bocca, orecchie, polmoni, stomaco, fegato, intestino, mani, piedi, capelli, utero, genitali, prostata, vescica, reni, protesi, ossa, muscoli, sangue e cervello. Non è la frammentazione a cui oggigiorno ci obbliga la medicina tecnologica e che lo stesso Lingiardi considera come grave limitazione del lavoro di cura:

A prevalere, oggi, è una medicina iperspecialistica e burocratizzata, dove il corpo intero svanisce per lasciar posto alle singole parti. Ma quando le parti sono curate come separate, quasi non comunicanti e non riunite nella mente del medico, il rischio è perdere di vista il compito della professione: che è curare il malato, non solo la malattia”.

L’intento dell’autore, piuttosto, è di esplorare e farci conoscere quella meraviglia di “laboratorio alchemico capace di apparizioni infinite: è anatomico, fisiopatologico, etnologco, sociale, politico, religioso, artistico, estetico, sensuale, nudo, vestito, danzante, sessuale, giovane,maturo, anziano, piccolo, grande, energico, debole, stanco, malato, sufficientemente sano”.

Solo qualche piccola sosta per assaporare il profumo della sua indagine:

E’ la pelle il confine tra mondo esterno e mondo interno, involucro prezioso che custodisce piccoli tesori e che dai tempi più antichi è stata sempre oggetto d cure cosmetiche (creme, lavande, oli), di atti decorativi (scarificazioni, tatuaggi, body art), ma anche di atti lesionistici nel tentativo di sostituire il dolore fisico a qello mentale.

Non da meno, nel collegare il dentro al fuori, sono gli occhi, organi della consoscenza che possono connettere il visibile all’invisibile, (non per nulla il termine insight da sight=vista è fondamento della comprensione psicoanaltica).

Singolare scoprire che Plinio il Vecchio collocava nelle orecchie la sede della memoria (tirare le orecchie nel giorno del compleanno per ricordare il numero di anni trascorsi, fare l’orecchio alla pagina del libro in lettura per ricordarci dove siamo arrivati).

Se mangi troppo duole, altrettanto se non mangi affatto”. Parlando dello stomaco si rinforza l’idea che cibarsi, oltre a necessità fisica, è anche dimensione identitaria e socioculturale (anoressia, bulimia, binge eating in campo patologico; persone vegetariane, vegane, grandi digiunatori, fruttariane, crudiste in campo culturale.)

Emblematiche le pagine dedicate all’intestino, “l’organo che dialoga in continuazione col nostro cervello .. fino a diventare ipersensibile, persino irritabile”, sulla cui funzione evacuativa Freud costruisce la fase anale dello sviluppo psichico, dove il neonato mostra particolare interesse per la propria cacca – possibilità di donare oltre che ricevere – creando i presupposti, se a tale fase resta fissato, di conservare un carattere anale (ordine, igiene, controllo, avarizia).

Particolarmente simbolici i capelli: “di sacrificio o di forza, giovinezza o vecchiaia, i capelli sono un veicolo potente di comunicazione sociale”, (capelli lunghi negli anni della contestazione, crani lucidi come effetto della chemioterapia, ciuffi tagliati in segno di solidarietà all’iraniana Masha Amini, uccisa perché non indossava correttamente l’hijab, gli skinheads rossi e anarchici dei quartieri degradati delle città inglesi).

Troviamo l’utero che, da genesi dei sintomi isterici, è attuamente al centro dell’attenzione dell’espressione “utero in affitto” La gestazione per altri è etica? E’ traumatica? Riflette Lingiardi: “La donna e il suo corpo pongono domande a cui nessuna, tantomeno nessuno, può rispondere visceralmente … Viviamo in un’epoca complicata, con corpi contesi tra ideologia e tecnologia. Definire cosa è un corpo, quali sono i suoi confini fisici e tecnici è sempre più difficile”.

Pensiero quest’ultimo, che si affaccia anche alla voce protesi, da considerare come parte integrante di sé grazie anche ai prodigiosi avanzamenti della tecnica: se lenti a contatto, apparecchi acustici, parrucche, dentiere, arti in titanio, valvole cardiache supportano i corrispettivi organi fisici, viene da chiedersi se in tale elenco ormai si possa aggiungere anche lo smartphone come protesi della memoria.

Ultimo, volutamente, è il cervello, direttore d’orchestra di tutti gli strumenti precedentemente considerati: “Laboratorio infinito, pieno di stanze e anfratti, il cervello è un organo del sistema nervoso centrale. Ancora in gran parte misterioso, mette in movimento i muscoli, coordina gli organi, è la sede di pensieri, emozioni, ricordi – e di tanti dolori”.

Corposo: non trovo parola più confacente per definire il nuovo lavoro di Lingiardi. Grazie al suo incredibile assemblaggio dovuto all’applicazione del diffractive reading, è praticamente impossibile resistere e non essere contagiati dal suo stesso entusiasmo:

Citazioni e bibliografie finiscono per costruire dentro di noi un paesaggio al quale non solo è impossibile sottrarsi, ma in cui è bello naufragare”.

Ritrovare e conoscere il proprio corpo nelle diffuse interazioni testuali di svariate discipline è emozionante, ironico, doloroso, coinvolgente e appassionante.

Un monito alla doppia tendenza in atto nei corpi contemporanei:

il progressivo svanire, sia come immediatezza nelle relazioni quotidiane sia come tangibilità della corporatura sociale …e la loro crescente presenza sia come oggetti di attenzione continua (estetica o mediatica), sia come teatro di somatizzazioni e disagi”.

TartaRugosa ha letto e scritto di: Delphine De Vigan (2019), Le gratitudini, Traduzione di Margherita Botto, Einaudi, Torino

Invecchiare è imparare a perdere”.

Lo pensa Jérome, l’ortofonista che segue Michka per cercare di contrastare l’afasia che la perseguita. Che scherzo del destino per un persona che delle parole ha fatto il suo mestiere di correttrice di bozze!

Come spesso accade, invecchiando, le cose che prima funzionavano, poi non funzionano più.

Le piccole difficoltà che tuttavia non impediscono di abitare il proprio spazio vitale si fanno più impervie e, inevitabilmente, se sei sola e vecchia, devi decidere di affidarti a mani che non sono più le tue.

Di questo epilogo se ne rattrista Marie, l’altra protagonista della storia, vicina di casa e legata a Michka da un rapporto quasi filiale, essendo stata spesso da lei ospitata da piccina a causa di inadeguate cure materne. Marie è perfettamente consapevole del decisivo ruolo rivestito da Michka nel proprio percorso evolutivo e, alla luce di un tempo diventato ormai breve, rimpiange di non averla ringraziata abbastanza.

Grazie, un termine a volte complicato da esternare.

Gratis“, invece, sarà la parola sostitutiva usata frequentemente da Michka, il cui linguaggio storpiato trascina il lettore in una gara di comprensione di ciò che la nuova ospite della struttura residenziale riesce ancora a comunicare. “Fa pena = va bene“, impareremo a decodificare, inseguendola nella quotidianità reale e nell’immaginazione dove, in visioni oniriche, diventa vittima di un’insensibile direttrice che la tratta alla stregua di un oggetto di marketing.

I suoi sogni li raccontava più volte. Con varianti. O perché il ricordo a poco a poco si precisava o perché lei aggiungeva qualche particolare che riteneva più incisivo, in modo che noi – noi, in grado di andare e venire come ci pareva, noi pienamente padroni delle nostre capacità – potessimo capire la sensazione di terrore che la travolgeva.

Michka sa di aver mollato gli ormeggi. Simpatizza con Jérome di cui, più che gli esercizietti riabilitativi, vuol indagare la storia del suo passato e del rapporto conflittuale col padre. Sa che per lei esistono poche possibilità di recupero:

Ma io me ne invischio dei sin … dei coì … Capisci, è la parola vera che si squaglia. E poi tutta questa roba non serve a niente, so benissimo come andrà. Alla fine non ci sarà più niente, niente più parole, capisci, oppure una cosa qualsiasi, per riempire il vuoto. Ci pensi? Un monospazio … un monoglotto da vecchiaccia, tutta sola …”.

Anche dal punto di vista di Jérome impariamo che cosa significa lavorare a contatto con le perdite, le battaglie che si intraprendono per arrestare l’ineluttabile, la focosa resistenza alla resa incondizionata.

“ … il suo eloquio si è fatto più lento, più sinuoso, a volte si blocca nel bel mezzo delle frasi, completamente smarrita … Imparo a seguire il filo del suo pensiero . Sono sconfitto. Lo so. Conosco questo punto di non ritorno. … Però non devo mollare. Mai e poi mai. Altrimenti sarà ancora peggio. In caduta libera. Bisogna combattere. Non cedere niente. Né una sillaba, né una consonante”.

Sono pagine eloquenti, quelle della vecchiaia patologica. Eppure pervase dallo spirito di “ciò che resta”, o, come afferma James Hillman, dalla forza del carattere che alberga nell’ultima fase della vita. Michka combatte contro i suoi fantasmi notturni, le dipartite dei nuovi compagni di vita, le inesorabili ricadute. A disposisizione, nel cassetto del comodino, si accumulano le pastiglie delle ore ventidue, ultimo segnale di autodeterminazione che Jérome fatica ad accettare e che Michka così giustifica:

E’ solo per essere libra …capisci? Solo saperlo. Che è fossibile … andare. Finché c’é ancora vento”.

Il silenzio e la stanchezza sono incombenti, ma restano i conti da chiudere col passato e la voglia di mutare il destino di chi le sta accanto così amorevolmente. Con un linguaggio che diventa sempre più incomprensibile, Michka non demorde e continua ad informarsi sul futuro di Marie e Jérome e ad insistere sulla ricomposizione di legami interrotti.

Non trascura nemmeno il desiderio più recondito di ringraziare chi, nel suo di passato, l’ha salvata dalla deportazione. Perchè, alla fine, il bilancio deve essere chiuso senza lasciare conti in sospeso e questo sarà l’ultimo, immane sforzo in cui Michka si cimenta, vincendo quella battaglia che ogni giorno ricominciava da zero

Perchè gratis è la parola che ci lascia andare tranquilli: “Aveva un’aria serena. Il volto era disteso. Sembrava che si fosse addormentata così, con la certezza di non risvegliarsi”.

Dedicato alle Michka di tutti i giorni che vivono con convinzione il tempo che resta.

TartaRugosa ha letto e scritto di: Michiko Aoyama (2022), Finché non aprirai quel libro, Traduzione di Daniela Guarino, Garzanti, Milano

Cinque storie ruotano intorno alla Hatory Community House, un Centro che tutti vorremmo nel nostro quartiere, con offerte di tutti i generi per studio, approfondimenti, svago e, soprattutto, una bibliotecaria sempre disponibile a fare una ricerca selezionata in base a quel che si cerca.

La signora Komachi è una signora speciale:

una donna più che grassa, grossa. Mento e collo erano un tutt’uno … sulla cima della testa se ne stava placido un piccolo chignon in cui era infilato uno spillone dal quale pendevano tre grappoli di eleganti fiorellini bianchi. … Il suo modo di parlare possedeva un calore avvolgente e sulle ginocchia teneva una piccola scatola arancione scuro di un prodotto di grande successo della ditta dolciaria Kuremiyado, dei biscotti morbidi a forma di cupoletta”.

Un particolare, quest’ultimo, ricorrente in tutte le storie, poiché quella scatola non contiene più i dolcetti, ma è stata trasformata in portacucito contenente gli attrezzi per costruire oggetti di lana cardata. Un passatempo in attesa dei clienti? No, la peculiarità della signora Komachi è quella di porre domande precise al suo interlocutore, digitare con velocità supersonica sulla tastiera del computer per la ricerca dei testi, consegnare una lista dettagliata di libri inerenti all’argomento desiderato (l’ultimo libro è sempre riferito a qualcosa che non c’entra nulla con la richiesta), consegnarla al cliente unitamente al “supplemento”, per l’appunto l’oggetto di lana cardata (incontreremo una padella, un gatto, un mappamondo, un aereo, un granchio) che rivestirà un significato profondo nelle evoluzioni dei cambiamenti dei protagonisti,

Conosciamoli, nella loro diversità e in diverse tappe dell’esistenza, sono tutti accomunati da un’insoddisfazione più o meno latente per ciò che riempie o non riempie la loro vita e alla ricerca – percepita quasi impossibile – di una trasformazione:

Tomoka, di 21 anni, fa la commessa nel reparto abbigliamento dell’ipermercato Eden perché è l’unico che le ha offerto un impiego.

Vorrebbe cambiare, ma non sa bene nemmeno lei cosa fare di preciso. Confrontandosi con il collega Kiriyama (felice del suo lavoro di commesso nel reparto occhiali), si accorge di non aver approfondito utili competenze specifiche (patente, lingua straniera, informatica) e decide quindi di iscriversi al corso di informatica offerto dalla Hatory House, usufruendo della consulenza della bibliotecaria e stupendosi non poco quando sulla lista appaiono i libri relativi al funzionamento del programma Office e, come ultimo, Guri e Gura. libro illustrato con la storia di due topolini di campagna e il supplemento di lana cardata costituito da una padella.

Ryo, di 35 anni, contabile in un’azienda di mobili, affascinato sin da studente da un negozio di antiquariato. “Ogni volta che mi trovavo in quello spazio riuscivo a dimenticare per un po’ le complicazioni della vita quotidiana. Le cose seccanti accadute a scuola, le prediche di mia madre, le ansie riguardo al futuro”. E’ fidanzato con Hina, che raccoglie frammenti di vetro, conchiglie e stelle marine trasportati dal mare e li trasforma in piccoli gioielli. Questa sua passione sarà il pretesto per iscriversi alla Community House e frequentare con Ryo il corso “Incontrarsi con i minerali”. Da questa esperienza fa capolino il sogno di Ryo, aprire un negozio di antiquariato. Anche per lui l’incontro con la signora Komachi, tutta intenta a punzecchiare con un ago una cosa morbidatondeggiante (le forme si creano infilzando ripetutamente un ago in un batuffolo di lana). La scena si ripete e alla domanda di libri che spieghino come aprire un’attività, a una velocità che non si riesce a vedere le dita, ecco apparire la lista e, come ultimo testo, “Il giardiniere curioso”, unito al simpatico omaggio del supplemento: un gatto di soffice lana cardata.

Natsumi, di 40 anni, ex redattrice di un magazine dove ha freneticamente lavorato finché è rimasta incinta e pur continuando a prestare la sua attività fino quasi allo scadere della gravidanza e rinunciando al congedo di maternità, quando riprende l’incarico le viene annunciato dal caporedattore il trasferimento in segreteria: “Ma scusa, è troppo faticoso fare il lavoro di redazione e al contempo crescere un bambino, no?”. Amareggiata per il mancato riconoscimento del suo impegno di tanti anni, mentre passeggia con la figlioletta Natsumi entra nella Community House dove sa esserci uno spazio giochi per i bimbi e, nel frattempo, cerca libri illustrati per la piccina. Ovviamente dalla signora Komachi, cui confida con delusione le difficoltà: “Da quando è nata mia figlia non faccio che trovarmi in strade senza uscita. Sono irritata per il fatto che non posso fare ciò che voglio, e penso che non è così che doveva essere. E’ vero che mia figlia è importantissima, ma crescere un bambino si è rivelato molto più duro di quanto avessi immaginato”. Ed ecco che dalle dita magiche di Kamachi esce una lista di libri adatti per bambini e all’ultimo posto “La porta della luna”, accompagnato dal supplemento raffigurante un mappamondo.

Hiroya, di 30 anni, disoccupato e vergognoso di esserlo, entra in contatto con la Community House grazie all’incarico ricevuto dalla madre di acquistare dei prodotti ortofrutticoli venduti direttamente dai produttori al market ogni tre mesi. Imbattendosi in un pupazzetto eseguito dalla signora Kamachi e messo accanto a un cartellino scritto a mano, cercherà l’autrice, con la quale scopre di avere identica passione per i manga. Hiroya ha frequentato una suola di grafica “Poi però mi sono inceppato nella ricerca di un lavoro. E’ stato impossibile ottenere un lavoro da illustratore del tipo che volevo fare io e non avevo nemmeno idea di come scegliere un impiego temporaneo in un’azienda che si occupasse di altro. … la ricerca di un impiego non è andata a buon fine e anche i lavoretti part-time non continuo a farli a lungo, attualmente persisto nella condizione di nullafacente”. Per Hiroya non ci saranno titoli adatti a sostituire i manga già letti da bambino e , con sua sorpresa, la lista digitata dalla bibliotecaria indicherà un solo testo: “Evoluzione. Un catalogo per immagini. Il mondo che videro Darwin e gli altri”. Come supplemento, un piccolo aereo dal corpo grigio e le ali bianche. Sfogliando i ricordi, Hiroya troverà un biglietto scritto da lui su invito del professore di scuola sull’ immaginarsi dopo vent’anni: “Disegnerò illustrazioni che resteranno nel cuore della gente”. Il catalogo diventerà per Hiroya un ottimo stuzzicante dell’estro creativo e nella Community House, luogo così vicino e mai considerato, si aprirà un nuovo futuro anche lavorativo sia come sostituto dell’addetta alle pulizie sia come creativo per illustrazioni del giornalino locale o poster per i numerosi eventi della Community.

Infine conosciamo Masao, di 65 anni e pensionato in crisi. “Ora che non ero più un impiegato d’azienda non ero più riconosciuto dalla società come suo membro. … Tutte le frequentazioni che avevo avuto erano soltanto legate al lavoro. Pensare che ci ho lavorato per quarantadue anni”. Per inciso, Masao ha lavorato alla Kuremiyado, la ditta che fabbrica gli Honey Dome, i dolcetti la cui scatola era diventata il portacucito della signora Komachi. La moglie di Masao gli suggerisce di iscriversi a un corso di Go, iniziato presso la Commnity House dove lei insegna informatica. E sarà proprio questo argomento a far incrociare le strade di Masao e della bibliotecaria che, oltre a consegnargli una lista di libri sul funzionamento del Go, inserisce un libro di poesie “Genge e la rana” col supplemento di lana cardata raffigurante un granchio.

Nell’ultima storia si intrecceranno incontri già precedentemente conosciuti, dandoci la gioia di costatare come tutto si tiene intorno alla Community House e, non ultimo, svelando quale straordinaria tecnica avesse la signora Komachi nello scegliere i supplementi così adatti ai suoi interlocutori.. “A caso … Voi tutti trovate da soli un senso al supplemento che io vi regalo. E lo stesso vale per i libri. Cose che non c’entrano nulla con lo scopo dell’autore e le parole che questi ha scritto, è poi chi le legge a legarle a sé con un filo, a ricavarne qualcosa che è soltanto suo”.

Un libro ottimista che testimonia come è sempre possibile cambiare strada e come una fine possa preludere a un nuovo inizio, senza fretta, ascoltando le proprie inclinazioni, lasciandosi andare senza opporre resistenza.

TartaRugosa ha letto e scritto di: Giampaolo Nuvolati (2013), L’interpretazione dei luoghi, Firenze, University Press

Sono diversi ormai i testi che in questa rubrica si rincorrono su questo tema, nelle sue varianti dedicate al genius loci, ai giardini, alle derive …Così anche questo libro di Nuvolati giunge a proposito e contribuisce con maggior chiarezza a delineare e a modernizzare la figura del flaneur.

Annota l’autore che la parola flaneur ha varie origini e usi:

Nata intorno alla metà dell’Ottocento per designare dandy, poeti e intellettuali che passeggiando tra la folla delle grandi città ne osservano criticamente i comportamenti, la nozione di flaneur sollecita oggi con forza l’interesse delle scienze sociali e della filosofia, ma anche della letteratura e del cinema, per la capacità di identificare una particolare pratica di viaggio e di esplorazione dei luoghi, di rapporto riflessivo con le persone e gli spazi.

La figura del flaneur può dunque essere considerata da diverse angolazioni: “incarna il desiderio di libertà errabonda dell’individuo imprigionato da vincoli territoriali, ideologici, professionali; la ribellione contro le pratiche consumistiche di massa, specie contro il turismo mordi e fuggi; l’aspirazione ad assaporare la vita secondo ritmi più meditati; il recupero della sensibilità come forma di conoscenza!”, ma sebbene si tenda ad associare tale figura a poeti, artisti e intellettuali, lo spazio urbano può essere abitato da molteplici figure affini. Prima di conoscerle più in dettaglio, mi soffermo su una considerazione interpretativa che Nuvolati espone attraverso l’espressione “flaneur ossimorico”, ovvero le opposte contraddizioni che l’esploratore può incarnare.

Per esempio, essere al contempo puer e senex. Perché nel puer è custodita l’ingenuità del flaneur, la sua voglia di scoprire lo sconosciuto, la voglia di abbandonarsi entusiasticamente al labirinto urbano e però, al contempo, anche quella certa consapevolezza che lo rende saggio nella sua scelta di cosa osservare, nel sapere quando e dove sostare.

Sempre in ambito ossimorico il flaneur è solitario e un po’ malinconico, ma nello stesso tempo cammina nella folla, sfidandola e talvolta sentendosi un po’ sopra di essa.

Qualcuno ritiene che il bighellonare richiami l’ozio? Può darsi, ma è anche vero che la pazienza della perlustrazione, qualche volta vicino alla noia, rappresenti una sospensione in attesa dell’atto creativo (Tacita Dean definisce questo atteggiamento indolenza creativa). La flanerie, infatti, non è solo una forma di contatto lento con la città veloce, ma in genere è seguita da un momento produttivo, di scrittura, di narrazione, di fotografia, “di collezionare pensieri che non sempre seguono una logica, che spaziano da una disciplina all’altra, ricorrendo a più strumenti narrativi, spiazzando il lettore”.

Per non parlare dell’aspetto sociale e sociologico del flaneur … Egli infatti è “colui che grazie alla propria arte guarda la città, ne rielabora i significati e la restituisce a un pubblico più ampio, ma anche agli specialisti che necessitano di uno sguardo diverso, seppur mai definitivo”.

Dunque piedi, occhi e cervello sono le parti maggiormente coinvolte nell’espletare la flanerie: “caratteristica è quella di muoversi a piedi, conciliando tre attività: il camminar lento, l’osservare e l’interpretare ciò che lo sguardo coglie … Camminare nella città rinvia a una condizione di solitudine e di libertà nel rifiutare la velocità e i percorsi imposti dal ritmo urbano e massificato, è la scelta di tempi e pause personali ma, contemporaneamente, rappresenta anche un’apertura verso gli altri”.

Implicitamente fare il flaneur comporta un atteggiamento di pazienza, lentezza e silenzio. E’ solo grazie a queste attitudini che si possono percepire i cinque sensi vissuti dalla città, nonostante il rumore e la frenesia. Nel suo silenzio interiore il flaneur scopre che il luogo non rappresenta più il fondale delle sue azioni, ma diviene esso stesso protagonista, rivelandosi inaspettatamente agli occhi del suo osservatore e svelando l’anima fino allora nascosta. Senza dover necessariamente andare lontano, perché “ognuno ha la propria Parigi o Londra in cui perdersi; sono le nostre città di tutti i giorni che nascondono il loro genius loci misterioso, tra realtà e finzione”.

E, sempre a proposito delle contraddizioni incarnate, la vera sorpresa sta fra le multiformi figure che possiamo declinare nell’essere flaneur, rovistando sia fra presenze “marginali”, sia fra presenze di “élite” o addirittura fra “professioni”.

Nuvolati esamina queste categorie portando alla luce tizi e tali noti agli occhi di tutti coloro che si soffermano a considerare il prossimo che incrociano nelle vie della loro città:

Marginalità

– senzatetto e mendicanti che girano per la città cercando giacigli, cibo, luoghi della questua

– pensionati che passeggiano e, provetti umarél, si appostano vicino a operai al lavoro per dare loro consigli

– bighelloni frequentatori di bar perennemente seduti ai tavoli o, invisibili, nelle sale giochi aperte h 24.

– matti del paese e balordi in perpetuo movimento alla ricerca di compagnia

– alcolisti, tossicodipendenti che vanno a zonzo in città chiedendo la questua o alla ricerca di droga

– immigrati spaesati alla ricerca di conoscenti e di opportunità di lavoro in alcune zone della città

– studenti fuori sede che girovagano fra una lezione o l’altra nei periodi di pausa dello studio o nelle uscite serali

Elites

– ceti particolarmente abbienti che possiedono case di valore in più città dove trascorrere brevi periodi all’anno praticando attività di esplorazione della città congiuntamente all’élite locale e internazionale

– viaggiatori dei Grand Tour, clienti fagocitati da spa e hotel super lusso

– new dandies a passeggio per sfoggiare nuovi capi di abbigliamento

– turisti intellettualizzati che frequentano musei e mostre, seguendo affannati la bandierina della guida che li scorta

L’autore non manca di citare i “provocatori”:

hippies che rifiutano le regole; intellettuali critici nei confronti della società di massa; manifestazioni politiche; musicisti girovaghi.

E, ancora, Nuvolati si sofferma su chi si trova a fare flanella per motivi di lavoro:

poliziotti in perlustrazione di quartieri a rischio; detective sul luogo del delitto; giornalisti impegnati a raccogliere immagini e testimonianze; architetti che sovrintendono la trasformazione di un luogo.

Affascinante, su imitazione di Perec, la pratica dell’”osservazione da postazione fissa” (in altre parole, tentativi di esaurimento di un luogo), grazie all’effetto strabiliante che lo stesso spazio possa diventare, in diversi momenti della giornata, fonte di trasformazione sociale.

Autentica scoperta per lasciarsi abbracciare dalla visione dei propri luoghi, apparentemente i soliti, ma suscitatori di sempre nuove percezioni.

TartaRugosa ha letto e scritto di: Camila Fabbri (2024), Sani e salvi, EdizioniAdirlab, Napoli, Traduzione di Alberto Montalto

Il realismo magico, caro alla letteratura latinoamericana, mi ha sempre affascinato, probabilmente perché rappresenta un sano contrappunto alla razionalità che guida le mie azioni e sospende, lasciandola galleggiare nelle nuvole, la ricerca compulsiva di una causa.

Attirata da una recensione intrigante, ho quindi ordinato il libro di Camila -poliedrica donna argentina trentacinquenne scrittrice, drammaturga, sceneggiatrice, regista e attrice – il cui titolo spagnolo Estamos a salvo è decisamente più incisivo di quello adottato nella versione italiana.

I racconti (diciassette) hanno tutti in esergo una citazione iniziale tratta da “Documentario Nat Geo” e “Documentario Nat Geo Wild” che introduce al tema trattato nella narrazione relativa.

Con un linguaggio scarno, asciutto, essenziale, Camila ci trascina così dalla visione realistica del mondo in una dimensione attraversata da elementi misteriosi, surreali, dall’effetto straniante, intrecciati, (si può solo intuire tra le righe) alla denuncia di una terra travagliata dalla disparità tra ricchezza e povertà, dall’autoritarismo di un governo totalitario, dai desaparecidos, da famiglie disfunzionali, nonché da quell’imprevedibile inatteso che può sconvolgere l’omeostasi dell’esistenza.

In I rischi che corriamo, a seguito della notizia scientifica che una cellula madre nella scissione subisce più danni della cellula figlia, troviamo una donna depressa in cura psichiatrica il cui pensiero va alla sorella, prossima all’asportazione dell’utero “perché al suo interno è spuntato qualcosa, come quelle erbacce che spuntano sui balconi,sui tetti dei palazzi assai vecchi, luoghi che nessuno guarda più”. La donna depressa vive con la madre, le cui parole non ha voglia di ascoltare perché trova più interessante scrutare sui social le fotografie delle pettinature delle colleghe o le pance ingravidate delle amiche. Pensa all’utero che la madre ancora possiede, dove lei e la sorella si sono formate, il luogo della loro prima casa. E di quella madre, scopriamo essere stata picchiata dal marito. In terra (sa che non sarà l’ultima volta) viene vista dalla figlioletta preoccupata, quella stessa che sta per perdere l‘utero. Nel terrazzo della casa ci sono tante piante che crescono cercando la luce. “Lo fanno in silenzio, senza dirlo a nessuno. Senza attirare troppo l’attenzione”. Quando dopo l’anestesia la sorella si risveglierà ci sarà di nuovo quell’immagine della madre sdraiata per terra e allora chiamerà aiuto. Un’infermiera la rassicurerà, proteggendola. Così potrà rialzarsi in piedi e camminare più leggera, anche se i brutti ricordi non spariscono. “I loro corpi non saranno mai interi”.

In John Sullivan compare il tema del bullismo. Il pugile Sullivan, ultimo campione di boxe a mani nude, parla da un poster appeso al muro rivolgendosi a un ragazzotto grasso e nero che viene picchiato nel cortile della scuola da tre compagne. Gli fornisce “consigli sull’uso corretto del corpo, sulle tattiche per cadere in piedi e parare i colpi con le mani”. Gli dice che “bastava solo sedersi e parlare, proprio come stava facendo lui ora, stampato su un poster attaccato con del nastro adesivo sulla carta da parati del soggiorno”. Il ragazzotto soprannominato “palmi bianchi” dalle tre ragazze bianche, magre e slanciate, avanzerà verso di loro con i pugni chiusi, spaventandole. Poi le inviterà a pranzo a nome di suo padre (il donatore del poster) e ne osserverà lo stupore quando, una volta entrate, constateranno che la sua casa somiglia molto alla loro. Sono sedute tutte e tre sul divano. “Le vedo di schiena e, davanti a loro, il poster di John Sullivan … Credo che riescano a parlare con John perché muovono la bocca tutte e tre … Non le avevo mai viste così, raccolte sull’arredamento di casa mia, a parlare con un poster appeso al muro”.

In Piante senza tutori davanti all’asilo tre donne, diventate amiche durante le attese dell’uscita dei loro bimbi di quattro anni, appaiono in confidenza e facenti gruppo a sé. Parlano chi bene chi male della direttrice dell’asilo. Una quarta madre le osserva, pensando di non rivolgere loro la parola, ma ascoltando interessata i racconti sui pidocchi che possono infestare la testa dei bambini. Improvvisamente si accorge del tempo trascorso: mai tardata così tanto l’uscita dei bambini. Alcuni genitori si spazientiscono, la tensione sale, “Bussavano a turno alla porta perché avevano i pugni arrossati, ormai vicinissimi al sanguinamento”. Dopo parecchio tempo la porta si apre e la direttrice, avanti con gli anni, “si affacciò in tutta la sua figura e ci guardò dritto negli occhi, come una strega d’altri tempi”. Con passi secchi e ritmici dalla porta dell’asilo escono ragazzi e ragazze trentenni. “quelle persone adulte erano i nostri figli, ma cresciuti, trasformati, vissuti … Ce n’era voluto prima che l’asilo aprisse le sue porte, ma alla fine aveva provveduto. Ci aveva restituito la nostra prole”.

L’esergo di Geografia nazionale “Sul nostro pianeta vivono quasi sette miliardi di persone” è un buon preludio per introdurre il panico di Cintia manifestatosi alla notizia che quel giorno, in tutto il pianeta, non era morto nessuno. L’apprensione è così alta e violenta che Cintia non riesce nemmeno a condurre una videochiamata con la sorella e l’amato nipotino, sorpresi dal suo atteggiamento. In preda al totale spaesamento nel vedere tutto il mondo intento a celebrare il giorno della vita, Cintia “prese il portafoglio, contò i soldi, si infilò le scarpe da ginnastica e uscì … la cosa migliore da fare in quel clima in cui la gente eccedeva, era chiudere la porta di casa e cambiare per sempre la serratura”.

Si inanellano altri racconti che, in assenza di temporalità, parlano delle relazioni, ma anche di stupefacenti incroci, tra i protagonisti e vari animali – caimani, gatti, cani, tigri, dinosauri –; alcuni invece fotografano incredibili metamorfosi, aggressioni per futili motivi, sparizioni, maternità in età avanzata, vecchiaia, morti sfiorate per puro caso.

Caratteristica comune delle vicende è che l’elemento magico dell’accadimento irreale può essere solo accettato: i personaggi coinvolti non si chiedono troppe spiegazioni, non se ne stupiscono, semplicemente lo vivono.

Spesso sorpresi a fare i conti col decidere da che parte stare nelle pieghe della vita quotidiana, ognuno di questi incisivi testimoni solitari non soccombe all’ineluttabilità delle minacce e, nella potenza di una non-azione, in un crescendo di mondi fantasticati, stranianti e talvolta contraddittori, dimostra che è possibile resistere.