TartaRugosa ha letto e scritto di: Lauren Slater (1997), Le stelle di Van Gogh, Mondadori, Traduzione di Cristina Saracchi

Una doppia immagine rimbalza nei ricordi di me bambina che ascolta affascinata e turbata l’inquietante fiaba di Andersen Scarpette rosse: un corpo che danza all’impazzata trasportato da due piedini di rosso vestiti e i due piedini mozzati di netto, che piangono gocce di rosso per la prigionia forzata, da cui nessuno sforzo è valsa la riconquista della libertà.

Qual era la morale che ne traevo da quel truculento finale: ci sono forse situazioni che non puoi modificare a dispetto della tua volontà, delle tue possibilità, dei tuoi pentimenti?

Così lontano mi ha condotto la lettura dell’autobiografico cammino professionale della Slater. E a più di quarant’anni dall’entrata in vigore della legge Basaglia ancora le stelle di Van Gogh illuminano un cielo costellato di ricordi colmi di aspettative, aspirazioni, illusioni.

Quelle umane sensazioni che non fanno poi così tanta differenza nell’ “essere sentiti” da una persona sana o da una persona folle, se non nella capacità di governarne l’intensità della pena: “Quello che mi distingue dai miei pazienti – quello che mi distingue dai “malati” – è soltanto l’aver acquisito una capacità di gestire le lame del dolore profondo con un briciolo di destrezza. Sanità mentale non significa cancellare la sofferenza … Solo i muscoli per controllare le cose, per dirigere e incanalare, sono più forti”.

C’è un legame tra la storia delle scarpette rosse e le storie di uomini e donne che danzano nelle pagine del libro: non potersi togliere le scarpe nel momento desiderato e dover accettare di ballare la vita con un ritmo diverso da quello di altri.

Scrive Slater: “Nella moderna pratica clinica l’enfasi sembra essere principalmente posta sulla farmacoterapia e la veloce regressione dei sintomi, su interventi a breve termine e strutture private, con finalità di lucro, piuttosto che sulla dolce e misteriosa alchimia che forgia i legami tra gli individui, i legami che placano i timori e ci aiutano a guarire”.

E aggiunge, ripensando agli esordi della sua professione: “Ora credo di aver capito – ma a quel tempo non era così – che a volte non possiamo fare altro che accostarci alla piaga, rispettarne il decorso e osservarne i toni color vermiglio. A volte non possiamo far altro che stare vicino alla persona che soffre. Allora io non sapevo che anche questo volesse dire aiutare.

Eppure ci vuole una luce diversa per illuminare oscuri meandri dove si rifugiano parole malate, visioni fantasmatiche, minacce paurose, desideri impossibili, ricordi deformati, amori immaginati.

Questi i mondi sconosciuti di uomini e donne presentati con le loro diverse etichette identificative: schizofrenia, disturbo antisociale di personalità, depressione, catatonia, borderline, accomunati da uno stesso atteggiamento di studio e approccio: “assistenza comportamentale e rifiuto di qualsiasi altro modello psicoterapeutico, perché … esiste la consapevolezza, basata sugli studi dei processi biochimici e della struttura cerebrale degli schizofrenici, che questi individui sono talmente riluttanti a utilizzare le pieghe della corteccia, che, nella migliore delle ipotesi, riescono a gestire solo le più semplici funzioni legate alla cura della propria persona”.

Per fare luce occorre scostare il sipario della razionalità e calcare la stessa scena dei protagonisti e danzarne gli stessi passi.

Joseph, scrittore dissennato .. “un tempo aveva davvero frequentato una scuola come Harvard e il suo desiderio di tornare laggiù era strettamente legato all’aspirazione di possedere una mente in grado di formulare sequenze ordinate di parole. Accettato a Princeton, primo tra i figli della sua famiglia di immigrati a entrare in un college … non so se i borsoni di tela che portava con sé in quel primo semestre fossero più colmi di speranze dei familiari che di vestiti”.

Peter, un sociopatico, un deviante: “suo padre lo picchiava .. l’intensità della sua storia è racchiusa nell’immagine di un ragazzino schiacciato contro un frigorifero bianco … l’uomo addosso a lui, che grida; Peter sentiva il membro di suo padre, caldo e duro, nell’incavo tra le cosce… . Peter, quando Joanne lo deludeva, andava su tutte le furie, il sangue gli montava alla testa, e scaraventava la ragazza contro il muro, colpendola con violenza sul viso”.

Marie, depressa “che non è mai stata felice per più di dieci ore. … Con una madre che trovava rifugio nel cibo e nell’obesità. Di sera, il padre sedeva nella sua tana con un bicchiere cangiante in mano, mentre la madre, apatica e inespressiva, stava in cucina con indosso una vecchia vestaglia e davanti un piatto di maccheroni”.

Oscar, “muto e raggelato per giorni, seduto sul letto a fissare il mondo che lo circonda. . .. La risposta di immobilità è l’ultimo di una serie di meccanismi di adattamento che gli animali mettono in atto quando sentono avvicinarsi la fine. … Cecil molestava Oscar di notte e quando la madre lo scoprì, cacciò di casa il marito. Quattro mesi dopo l’avvio delle pratiche per il divorzio … si imbattè in bobine di pellicola nera che mostravano il corpo del figlio nudo e piegato ad angolo, disteso e sondato”.

Linda con “disturbo della personalità di tipo borderline, .. quella che i medici meno amano incontrare. Questi pazienti sono noti per le modalità roboanti, accentatrici e iperesigenti che attuano nel rapportarsi con gli altri … i loro comportamenti sono sovente terribilmente distruttivi e includono l’anoressia, l’abuso di sostanze, l’automutilazione e i tentativi di suicidio”.

Quando gli uomini con cui lavoro gemono, gridano o serrano le mani, io immagino che piangano il loro mutismo. … Mentre cercano di parlare, delle volte lancio un’occhiata alle loro lingue, e ciò che mi aspetto di vedere non è l’agile bisturi rosso che scolpisce le frasi, ma un corpo molle e grigiastro che sbatte privo di vita”.

Mondi che possono essere penetrati e compresi solo se si è disposti a giocare con le stesse carte.

Peter: mettere in relazione il proprio cammino di sofferenza con una costruzione epica di ampio respiro e vedere che le foglie marce della sua anima sono parte di un’odissea maschile socialmente sancita.

Joseph: entrare nel caos della sua ipergrafia e alleggerire le frasi. Invece di guardare le parole come intelleggibile follia, considerarle un’unità coerente e dotata di significato, ma contaminata dalla polvere mentale. Con una semplice revisione, dipanato il groviglio grammaticale, emerge la Storia.

Marie e ogni tentativo di miglioramento fallito: indugiare nella propria pena invece che tentare sempre di uscirne … saper riconoscere il dolore, entrare consapevolmente in una ferita e in quel luogo sconosciuto attendere insieme, mano nella mano.

Linda: la clinica in cui è ricoverata è la stessa in cui la giovane Slater fu ospitata come degente. Modificato il ruolo, mentre la terapeuta si avvia verso la stanza della nuova paziente, riemerge il ricordo del mazzo di chiavi che aprivano “” porte di mondi a cui non sapevo accedere”. “Chiavi, chiavi, devono essere il sogno di ogni malato di mente … Le chiavi sono il simbolo della libertà, del potere e della definitiva separazione. Perché in un ospedale psichiatrico solo un gruppo possiede le chiavi; gli altri siedono a tavola impugnando forchette di plastica.

.Non resta che dire a Linda “Prendi la chiave. Apri tu la porta. … E da qui cominciamo”.

A danzare insieme. Con le scarpette rosse.

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