TartaRugosa ha letto e scritto di: Emanuele Trevi (2021), Due vite, Neri Pozza, Vicenza

La scrittura è un mezzo singolarmente buono per evocare i morti, e consiglio a chiunque abbia nostalgia di chiunque di fare lo stesso: non pensarlo ma scriverne; accorgendosi ben presto che il morto è attirato dalla scrittura, trova sempre un suo modo inaspettato per affiorare nelle parole che scriviamo di lui, e si manifesta di sua propria volontà.

Perché noi viviamo due vite, entrambe destinate a finire: la prima è la vita fisica, fatta di sangue e respiro, la seconda è quella che si svolge nella mente di chi ci ha voluto bene. E quando anche l’ultima persona che ci ha conosciuto da vicino muore, ebbene, allora davvero noi ci dissolviamo, evaporiamo, e inizia la grande festa del Nulla, dove gli aculei della mancanza non possono più pungere nessuno.

Non è l’incipit del libro di Trevi, ma trovo queste frasi potentemente suggestive per descrivere il desiderio dell’autore di far riemergere un percorso della memoria legato alla sua profonda amicizia con Rocco Carbone e Pia Pera.

Memoria scritta con una prosa poetica dove si inseguono frammenti di vita che dalla giovinezza – quando il futuro pare ancora lungo – approdano alla prematura scomparsa dei due scrittori, assurda per il primo, angosciante per la seconda.

Da subito Trevi ci consegna ritratti intensi, costellati da aneddoti e ricordi che svelano caratteri, attitudini e passioni dei due protagonisti – così diversi eppure per certi versi complementari – ai quali intreccia il suo intimo personale carosello del voler bene e della volubilità dei sentimenti che talvolta scatena rimorso e colpa,

Parlando di Rocco, l’autore ce lo presenta come destinato ad assomigliare sempre più al proprio nome: rigido, granitico, ostinato, dotato di notevoli facoltà e pur tuttavia, questa costellazione di fatti positivi, o perlomeno normali, si disponeva attorno a una specie di buco nero, capace di assorbire al suo interno ogni energia vitale, trasformandola in un greve, inerte, disperato fastidio di esistere, nel quale il futuro gli appariva come l’irrimediabile ripetizione di un presente insopportabile.

Così appaiono le Furie di Carbone: nella quotidianità e nelle ossessioni dello scrivere, nella rinuncia a una cattedra di prestigio in favore dell’insegnamento presso il carcere di Rebibbia, nelle montagne russe del suo umore che prevedevano tuffi vertiginosi in basso e risalite altrettanto ripide, …nella scrittura di romanzi che ha praticato meticolosamente, ostinatamente, una specie di penitenza come se scavasse una galleria in una montagna di dolore, di sconforto. Ma con l’idea implicita che, una volta sbucato dall’altra parte, avrebbe trovato le stesse identiche cose che c’erano al punto di partenza.

La sua storia biografica si dipana nel panorama culturale degli anni Ottanta, in scene di vita in cui si incrociano nomi degli scrittori incontrati, case editrici, amori tumultuosi e la fascinazione dell’alta borghesia.

Ma dove compare anche il rimorso per la tardiva comprensione che gli sbalzi umorali di Rocco, caratterizzati da litigi e riappacificazioni propiziate pure dall’alcool, avevano a che fare con lo strato più intimo e indifeso della sua natura, erano un modo per occupare il centro dell’attenzione e chiedere quell’affetto di cui si sentiva sempre in credito.

Capita che nell’amicizia vi siano momenti di masochismo e sadismo dettati da un bisogno di corresponsione di reciprocità:

fu quando avevo percepito con maggior acutezza il fatto che Rocco in realtà mi ascoltava pochissimo, perché la cosa che gli premeva era esporre daccapo, un’altra volta, i suoi problemi, che è iniziato il mio distacco. … Me ne chiese conto più di una volta, mettendomi alle corde, esigendo una risposta precisa. … Era proprio questo il problema: non gli potevo rispondere perché non riuscivo più a farmi capire, a montare sullo scoglio liscio della sua disperazione.

Pia entra nel racconto grazie a una fotografia in bianco e nero, una delle immagini che fanno parte del bagaglio dei nativi di quegli anni e che riportano le lancette dell’orologio al tempo in cui i due, nutrendo ossessioni diverse e inconciliabili fra loro, fondarono un legame fino all’ultimo trasparente e felice.

Trevi la definisce una Mary Poppins all’incontrario, incoerente, suscettibile e dolce,una talentuosa traduttrice della letteratura russa, ma a cui piaceva scrivere di sesso, in modo molto disinvolto, vale a dire senza sfumare quando i suoi personaggi arrivano al dunque.

Il desiderio di Pia di riscrivere il capolavoro di Nabokov dal punto di vista di Lolita, fu indubbiamente la sua ambizione più audace e la delusione più cocente, in quanto non avendo tenuto conto che l’utilizzo di un personaggio e di una storia inventati da un altro necessitava l’attesa di settant’anni dalla morte dell’autore, si trovò ad essere trattata come una ladra.

Questo fatto la ferì e la spinse a cercare altre strade.

Nella considerazione che di fronte alle intemperanze delle perturbazioni psichiche occorreva arrendersi e inglobarle in sé, Trevi ricorda gli ultimi anni di Rocco come i migliori: si era circondato di persone che lo capivano, oppure si sentiva capito, che è la stessa cosa.

La sua vita cessa bruscamente muore schiantandosi con il motorino contro un’auto parcheggiata in doppia fila, ai piedi dell’Aventino. Proprio lì, per commemorarlo, viene piantato un ulivo, simbolo che, per le strane connessioni volute dal destino, diventa propaggine di collegamento alla svolta letteraria di Pia, il giardino.

Una scelta incomprensibile per Trevi, poco avvezzo a pensare allo sradicamento cittadino dell’amica per un ritiro nella campagna lucchese, fatto che invece diventerà un colpo vincente quando, costretta dalla sclerosi laterale amiotrofica a muoversi in una carrozzina elettrica, troverà proprio nell’amore per la terra benefici effetti rigenerativi.

I suoi “libri naturali” vibrano della salutare, rivelatrice energia dell’errore. E le sconfitte, anziché scoraggiarla, esaltano il suo nobile disdegno di tutto ciò che è facile.

Pia cura il suo giardino anche nei momenti più difficili e disperati ed è con il suo magistrale “Al giardino ancora non l’ho detto” che a sessant’anni consegna ai suoi lettori la perfetta comprensione del limite fra mente e corpo, vita e morte.

Che Due vite sia anche una prosa d’anima, lo si evince dallo svelamento da parte di Trevi di un suo strano malessere durante il sonno che inizia a pochi mesi dalla morte di Rocco e che finalmente cessa quando viene incaricato di sistemare il romanzo che l’amico stava per consegnare prima dell’incidente. Metter mano a uno stile così inconciliabile col proprio costringe Trevi letteralmente a sostituirsi a Rocco, soppesando ogni parola e ogni frase come se fosse la sua, facendogli vivere un’esperienza psicologica intensa perché richiedeva tutta l’attenzione e la comprensione che Rocco esigeva dagli altri.

Il commovente ed espressivo racconto di questa storia di amicizia volge al termine, consegnandoci molto più che una cronologia di fatti e attivando analoghi sentimenti di quando pensi a qualcuno che non c’è più e che tuttavia sai di portare dentro di te, interrogandoti su quale sarà il tuo destino.

Da pochi mesi ho compiuto l’età esatta in cui Pia si è ammalata cominciando a perdere progressivamente l’uso del suo corpo. Gli anni di Rocco, invece, li ho superati abbondantemente. I nostri amici sono anche questo, rappresentazioni delle epoche della vita che attraversiamo, come navigando in un arcipelago dove arriviamo a doppiare promontori che ci sembravano lontanissimi, rimanendo sempre più soli, non riuscendo a intuire nulla dello scoglio dove toccherà a noi, una buona volta, andare a sbattere.

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