TartaRugosa ha letto e scritto di: Francesca Scotti (2022), Il tempo delle tartarughe, Hacca edizioni (MC)

Chi mi vuole bene sa che amo le tartarughe (e non solo).

Stefy – visitando l’originale libreria monzese Virginia & Co. – è stata attratta da un titolo e ha pensato a me: ecco come questo libro è arrivato sul mio comodino.

Non conoscevo l’autrice e i quindici racconti raccolti nel testo sono stati un’autentica rivelazione.

Le tartarughe elogiano la lentezza e tale dovrebbe essere la lettura di queste storie che, sia pur brevi, hanno il potere di lasciare un marchio nella sfera mnemonica ed emotiva. Direi quasi a lento rilascio o ad impatto ritardato, perché lavorano dentro, suscitando interrogativi, ipotesi, dubbi.

Caratterizzati da una tonalità dolente, offrono spaccati di vita mescolati a visioni talvolta surreali, spesso rette dalla comparsa di animali, oggetti, situazioni che fungono da “elemento terzo” per orientare verso la comprensione di uno sviluppo incerto, o incomodo, o spiazzante, o senza speranza.

L’autrice, che divide la sua esistenza tra Occidente e Oriente, semina tracce di profumo nipponico nell’evolversi delle umane vicende narrate.

Vicende dei nostri tempi, fotografie, scenari che spesso hanno trovato anche nel lettore analoghe abitazioni, favorendo quindi facili identificazioni e multiple interpretazioni.

I temi affrontati non arrivano diretti come una denuncia. Piuttosto il percorso è laterale, zigzagante fra panorami suggestivi e parole interrotte che si schiudono improvvisamente in una frase rivelatrice, in una dichiarazione di intenti cui il lettore è chiamato a cercarne la direzione.

Inadeguatezza, bullismo, occasioni perdute, povertà, amori falliti la cui trama non è mai scontata: il tratteggio dell’accadimento devia armonico fra i protagonisti e scene fantasmatiche in bilico tra realtà e mistero per ritornare improvviso a un plot che sedimenta nel lettore, provocandone dapprima estraniamento e poi sorpresa. Quasi sempre amara.

Perché così è la vita.

Drammatica l’esperienza di bullismo della piccola Michiko in viaggio verso casa “Non male avere un guscio a proteggerti sempre, pensa Michiko mettendo lo zaino di cuoio rosso sulla cappelliera”; solo l’espediente della fermata sbagliata del treno da parte di un passeggero ti travolge con delicatezza sull’esito.“Andiamo, ti porto a cercare un guscio sulla spiaggia”, dice la donna e insieme si incamminano verso l’oceano.

La mia memoria corre inevitabilmente all’amata canzone Samarcanda di Roberto Vecchioni.

Sconcertante la risoluzione di un rapporto che non trova la complementarietà fra Sofia Mariko e Yoshi, sposati da un anno, si conoscevano appena quando lo avevano deciso.In questo caso è il rimedio all’insonnia che ci conduce attraverso i quartieri di Tokyo, strade percorse da Yoshi perché “finché lui guidava, lei riusciva a dormire. Erano le lievi oscillazioni , il rumore del motore a cullarla … Yoshi andava a dormire subito dopo cena, mentre lei preparava la colazione per quando sarebbero rientrati dalla notte in auto …Mariko faceva colazione di gusto, mentre Yoshi perdeva appetito, sentiva l’energia svanire e un’insofferenza cupa crescere. Nel titolo la preveggenza del colpo di scena: “La pace di chi ha sete e sta per bere”.

Emblematica la litigiosità di una coppia che utilizza la gita con il figlio come alibi della propria incomunicabilità e altrettanto emblematica la difesa del piccolo Pietro che stringe amicizia con Junij , da cui impara la diversità del linguaggio e della cultura giapponese. “Perché da ora saremo amici e tu resterai qui con me … Pietro si volta a guardare i suoi genitori, sono sempre litigiosi e gesticolanti e ora stanno per svanire dietro la curva”.

Fallimentare il tentativo di ricucire una relazione sospesa e sospeso è il fiato di sapere come finirà la tartaruga ferita grazie alla quale si intuisce un tentennante riavvicinamento di una coppia in crisi. “Calano l’animale in acqua, qualche riflesso trema, poi niente si distingue più … Non si guardano e risalgono in auto. hanno fame e sonno”.

Straziante il destino della signora Nakano il cui stabile deve essere distrutto per il rinnovamento del quartiere. Non può permettersi di trasferirsi: è troppo costoso. E allora come affronterà l’arrivo delle ruspe? “Come faccio? Basta sedersi in un punto della stanza e aspettare finché non riusciranno più a vedermi. Ha presente i camaleonti? Ecco, è una cosa simile. Molti anziani scoprono di saperlo fare quando non c’è più posto per loro”. L’elemento terzo del racconto è rappresentato dalle ante dell’armadio dipinte con le ortensie. La vicina, in apprensione, la cerca il mattino dopo “i suoi capelli sono del colore delle ortensie e il suo viso della carta, il busto si è fatto legno, le gambe paglia intrecciata … Vedo le iridi illuminarsi un istante sulla carta per tornare subito nascoste: é senza confini, è casa”.

Anche questo racconto sollecita un ricordo: lo struggente libro di Fukazawa Shichirō Le canzoni di Narayma (da cui il film La ballata di Narayama).

E via via con le altre storie, con i temi che riempiono i giornali (solo?): indifferenza, superficialità, disprezzo del prossimo, noncuranza dell’infanzia ma anche ininterrotta ricerca di un senso interiore, che diventa la forza per una lettura che non trascura di smuovere lo sguardo più profondo verso se stessi e il rapporto con l’Altro.

Come in Calendario lunare dove una misteriosa scatola di legno chiaro e lucido, un peso prezioso, racchiude il segreto di un piantina di fragole da cui vengono smossi cristalli di ghiaccio.“Lei mi diceva non svanirò, non me ne andrò, non finirò” sussurra l’uomo. “E io ho imparato a ritrovarla”.

C’è sempre la possibilità di dare una forma nuova alla speranza.

Grazie a Stefy per avermi fatto conoscere Francesca Scotti.

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Bio

TartaRugosa ha letto e scritto di: Lauren Slater (1997), Le stelle di Van Gogh, Mondadori, Traduzione di Cristina Saracchi

Una doppia immagine rimbalza nei ricordi di me bambina che ascolta affascinata e turbata l’inquietante fiaba di Andersen Scarpette rosse: un corpo che danza all’impazzata trasportato da due piedini di rosso vestiti e i due piedini mozzati di netto, che piangono gocce di rosso per la prigionia forzata, da cui nessuno sforzo è valsa la riconquista della libertà.

Qual era la morale che ne traevo da quel truculento finale: ci sono forse situazioni che non puoi modificare a dispetto della tua volontà, delle tue possibilità, dei tuoi pentimenti?

Così lontano mi ha condotto la lettura dell’autobiografico cammino professionale della Slater. E a più di quarant’anni dall’entrata in vigore della legge Basaglia ancora le stelle di Van Gogh illuminano un cielo costellato di ricordi colmi di aspettative, aspirazioni, illusioni.

Quelle umane sensazioni che non fanno poi così tanta differenza nell’ “essere sentiti” da una persona sana o da una persona folle, se non nella capacità di governarne l’intensità della pena: “Quello che mi distingue dai miei pazienti – quello che mi distingue dai “malati” – è soltanto l’aver acquisito una capacità di gestire le lame del dolore profondo con un briciolo di destrezza. Sanità mentale non significa cancellare la sofferenza … Solo i muscoli per controllare le cose, per dirigere e incanalare, sono più forti”.

C’è un legame tra la storia delle scarpette rosse e le storie di uomini e donne che danzano nelle pagine del libro: non potersi togliere le scarpe nel momento desiderato e dover accettare di ballare la vita con un ritmo diverso da quello di altri.

Scrive Slater: “Nella moderna pratica clinica l’enfasi sembra essere principalmente posta sulla farmacoterapia e la veloce regressione dei sintomi, su interventi a breve termine e strutture private, con finalità di lucro, piuttosto che sulla dolce e misteriosa alchimia che forgia i legami tra gli individui, i legami che placano i timori e ci aiutano a guarire”.

E aggiunge, ripensando agli esordi della sua professione: “Ora credo di aver capito – ma a quel tempo non era così – che a volte non possiamo fare altro che accostarci alla piaga, rispettarne il decorso e osservarne i toni color vermiglio. A volte non possiamo far altro che stare vicino alla persona che soffre. Allora io non sapevo che anche questo volesse dire aiutare.

Eppure ci vuole una luce diversa per illuminare oscuri meandri dove si rifugiano parole malate, visioni fantasmatiche, minacce paurose, desideri impossibili, ricordi deformati, amori immaginati.

Questi i mondi sconosciuti di uomini e donne presentati con le loro diverse etichette identificative: schizofrenia, disturbo antisociale di personalità, depressione, catatonia, borderline, accomunati da uno stesso atteggiamento di studio e approccio: “assistenza comportamentale e rifiuto di qualsiasi altro modello psicoterapeutico, perché … esiste la consapevolezza, basata sugli studi dei processi biochimici e della struttura cerebrale degli schizofrenici, che questi individui sono talmente riluttanti a utilizzare le pieghe della corteccia, che, nella migliore delle ipotesi, riescono a gestire solo le più semplici funzioni legate alla cura della propria persona”.

Per fare luce occorre scostare il sipario della razionalità e calcare la stessa scena dei protagonisti e danzarne gli stessi passi.

Joseph, scrittore dissennato .. “un tempo aveva davvero frequentato una scuola come Harvard e il suo desiderio di tornare laggiù era strettamente legato all’aspirazione di possedere una mente in grado di formulare sequenze ordinate di parole. Accettato a Princeton, primo tra i figli della sua famiglia di immigrati a entrare in un college … non so se i borsoni di tela che portava con sé in quel primo semestre fossero più colmi di speranze dei familiari che di vestiti”.

Peter, un sociopatico, un deviante: “suo padre lo picchiava .. l’intensità della sua storia è racchiusa nell’immagine di un ragazzino schiacciato contro un frigorifero bianco … l’uomo addosso a lui, che grida; Peter sentiva il membro di suo padre, caldo e duro, nell’incavo tra le cosce… . Peter, quando Joanne lo deludeva, andava su tutte le furie, il sangue gli montava alla testa, e scaraventava la ragazza contro il muro, colpendola con violenza sul viso”.

Marie, depressa “che non è mai stata felice per più di dieci ore. … Con una madre che trovava rifugio nel cibo e nell’obesità. Di sera, il padre sedeva nella sua tana con un bicchiere cangiante in mano, mentre la madre, apatica e inespressiva, stava in cucina con indosso una vecchia vestaglia e davanti un piatto di maccheroni”.

Oscar, “muto e raggelato per giorni, seduto sul letto a fissare il mondo che lo circonda. . .. La risposta di immobilità è l’ultimo di una serie di meccanismi di adattamento che gli animali mettono in atto quando sentono avvicinarsi la fine. … Cecil molestava Oscar di notte e quando la madre lo scoprì, cacciò di casa il marito. Quattro mesi dopo l’avvio delle pratiche per il divorzio … si imbattè in bobine di pellicola nera che mostravano il corpo del figlio nudo e piegato ad angolo, disteso e sondato”.

Linda con “disturbo della personalità di tipo borderline, .. quella che i medici meno amano incontrare. Questi pazienti sono noti per le modalità roboanti, accentatrici e iperesigenti che attuano nel rapportarsi con gli altri … i loro comportamenti sono sovente terribilmente distruttivi e includono l’anoressia, l’abuso di sostanze, l’automutilazione e i tentativi di suicidio”.

Quando gli uomini con cui lavoro gemono, gridano o serrano le mani, io immagino che piangano il loro mutismo. … Mentre cercano di parlare, delle volte lancio un’occhiata alle loro lingue, e ciò che mi aspetto di vedere non è l’agile bisturi rosso che scolpisce le frasi, ma un corpo molle e grigiastro che sbatte privo di vita”.

Mondi che possono essere penetrati e compresi solo se si è disposti a giocare con le stesse carte.

Peter: mettere in relazione il proprio cammino di sofferenza con una costruzione epica di ampio respiro e vedere che le foglie marce della sua anima sono parte di un’odissea maschile socialmente sancita.

Joseph: entrare nel caos della sua ipergrafia e alleggerire le frasi. Invece di guardare le parole come intelleggibile follia, considerarle un’unità coerente e dotata di significato, ma contaminata dalla polvere mentale. Con una semplice revisione, dipanato il groviglio grammaticale, emerge la Storia.

Marie e ogni tentativo di miglioramento fallito: indugiare nella propria pena invece che tentare sempre di uscirne … saper riconoscere il dolore, entrare consapevolmente in una ferita e in quel luogo sconosciuto attendere insieme, mano nella mano.

Linda: la clinica in cui è ricoverata è la stessa in cui la giovane Slater fu ospitata come degente. Modificato il ruolo, mentre la terapeuta si avvia verso la stanza della nuova paziente, riemerge il ricordo del mazzo di chiavi che aprivano “” porte di mondi a cui non sapevo accedere”. “Chiavi, chiavi, devono essere il sogno di ogni malato di mente … Le chiavi sono il simbolo della libertà, del potere e della definitiva separazione. Perché in un ospedale psichiatrico solo un gruppo possiede le chiavi; gli altri siedono a tavola impugnando forchette di plastica.

.Non resta che dire a Linda “Prendi la chiave. Apri tu la porta. … E da qui cominciamo”.

A danzare insieme. Con le scarpette rosse.

TartaRugosa ha letto e scritto di: Remo Bodei (2009), La vita delle cose, Laterza editore

Nella mia vita professionale, il termine “anomia” sta ad indicare l’incapacità a denominare gli oggetti e in genere è un inquietante segnale di problema cognitivo: “dammi quella cosa lì…, come si chiama?…”

Se risalgo a epoche più remote, la parola “cosa” era assai contestata dalla mia severa maestra Adriana, capace di abbassare di due voti il tema assegnato o la prova orale sostenuta, qualora tale “cosa” osasse fare una temeraria comparsa.

Con che piacere quindi immergermi nella lettura di Bodei e trovare che “Il significato di ‘cosa’ è più ampio di quello di ‘oggetto’, giacchè comprende anche persone o ideali e, più in generale, tutto ciò che interessa e sta a cuore …L’italiano ‘cosa’ (e i suoi correlati nelle lingue romanze) è la contrazione del latino causa, ossia di ciò che riteniamo talmente importante e coinvolgente da mobilitarci in sua difesa”.

Sempre etimologicamente ragionando, la parola oggetto (da obicere, gettare contro, porre innanzi) è ciò che si contrappone al soggetto, mentre le cose rappresentano un investimento affettivo e duraturo.

Sono i nostri rapporti con le cose che forniscono consistenza alla nostra identità. La dimensione oggettiva della cosa deve diventare soggettiva, e questo implica una responsabilità di ognuno di noi a farci interpreti e “trasmettitori” di ciò che miliardi di uomini hanno lasciato al mondo sotto forma di opere, non solo come prodotto, ma anche come sostanza e materia: pietra, argilla, marmo, legno …

Salvare solo la natura oggettiva della cosa, implica un rischio tragico: “non solo le cose, ma la storia stessa si riduce in gran parte a mera oggettività pietrificata, ad accumulo di dati e oggetti non mediati dalla coscienza e non illuminati dalla decifrazione e dalla contestualizzazione del loro senso. In che modo le nuove generazioni saranno capaci di comprendere i messaggi lasciati nelle cose dalle generazioni precedenti, sottraendoli al naufragio dell’oblio o al destino dell’insignificanza e ricollegandoli, con le dovute mediazioni, alle proprie vicende e alla propria sensibilità?”

Come possono le cose avere anima se la tendenza odierna è orientata soprattutto alla produzione di oggetti che vengono già progettati, ancorché prodotti, per essere facilmente sostituibili, soffermandosi più sul concetto di obsolescenza, che su quello di durata? Quindi un rapporto con le cose effimero, veloce, privo di affezione : “Nel nostro mondo è inevitabile che il panorama degli oggetti muti rapidamente, che una ‘generazione’ di modelli sempre nuovi o alla moda sostituisca e sospinga i precedenti nell’oblio: che computer più elaborati rendano rapidamente obsoleti quelli fabbricati pochi anni prima o che i forni elettrici o a microonde prendano il posto del focolare, dove ardeva il ceppo e lo spiedo veniva fatto girare a mano”.

E se le cose un tempo assorbivano gli investimenti affettivi e cognitivi, anche oggi possiamo verificare la comparsa di un sentimento di nostalgia che ci conduce a desiderare quell’autenticità ormai quasi sparita.

Chissà. Magari è perché stiamo maturando la consapevolezza che forse siamo gli “ultimi” ad aver sperimentato materie, forme, gusti, valori ..

Riesco a commuovermi alla visione di illustrazioni d’epoca.

Oggetti i più disparati mi suscitano profonde emozioni e una voglia di contatto, di manipolazione, di stimolazione completa dei sensi.

Parlo di ogni oggetto che per me è sacralmente diventato cosa: arredi, capi d’abbigliamento, copertine di libri o dischi 45 giri, astucci, borse, coperte patchwork, maglioni di lana, scialli, fotografie sbiadite, pentole di rame, case di bambole, bambole di pezza … “L’atmosfera larica (larico nel senso della divinità della casa) della casa custodiva e favoriva la trasformazione degli oggetti in cose e, con la sua sacrale intimità, attribuiva decoro e rispettabilità ai proprietari”.

E l’emozione sempre si lega al ricordo: di un ambiente, di un luogo, di una relazione, di un’amicizia, di un sapore, di un gioco, di una difficoltà … via via tante mattonelle che poste una sopra l’altra edificano la mia personale costruzione di essere vivente.

Come sostiene Bodei, purtroppo, al tempo attuale gli oggetti non sono più unici: la loro produzione avviene in serie e sono destinati a diventare cosa solo “per effetto della pubblicità, che li circonda di una lucente aureola in grado di distogliere spesso lo sguardo dall’affidabilità intrinseca del prodotto”.


Che sia davvero solo l’arte capace di salvare l’ancoraggio delle cose alla nostra memoria? “Il pittore sa vedere il mondo in maniera più articolata e profonda di coloro che non hanno mai esercitato e affinato quello sguardo che in tutti noi, comunque, avvolge, palpa, sposta le cose visibili. Un simile sguardo … costruisce situazioni in cui le cose stesse sembrano parlare e guardarci, tanto che non si sa più chi vede e chi è visto: non si può dire se è lo sguardo o sono le cose a comandare . … Nei quadri “l’oggetto diventa ora soggetto … rendendosi autonomo e trasformandosi in cosa che ci sta a cuore, non è più quello che ci sta di fronte come ostacolo da superare o alterità da inglobare. Non dobbiamo più sottometterlo, proprio perché l’arte stessa lo sottrae al consumo immediato e alla lotta. … Le cose vengono trasportate in un altro spazio, sospese nel tempo e messe, per quanto possibile, al riparo dall’oblio, dal decadimento e dalla morte”.

Ma esiste un altro modo per riscattare le cose da un ruolo anonimo e inerte.

E qui ci aiuta la filosofia.

Più amiamo una singola cosa, più amiamo il mondo. “Le cose ci spingono a dare ascolto alla realtà, a farla entrare in noi aprendo le finestre della psiche, così da areare una interiorità altrimenti asfitttica”.

Gli oggetti diventano cose quando entriamo in un rapporto profondo con esse, quando ci interroghiamo sulle loro origini, sui materiali con cui sono costruite, sul motivo dell’uso, sulla loro collocazione spazio-temporale: maggiore è il numero delle domande che ci poniamo nei loro confronti, migliore sarà la capacità di entrare in sintonia col mondo e dare un senso alla storia e agli esseri umani abitatori del tempo.

La curiosità ci spingerà a sviluppare un atteggiamento di cura e di volontà di sapere: “una bambola di pezza o di porcellana può condurci, con l’immaginazione e con l’indagine, a situarla in un periodo che precede la scoperta della plastica, a inquadrarla nella storia dei giocattoli, a ragionare sulla diversa educazione delle femmine rispetto ai maschi oppure a ricordare episodi di vita familiare”.

Dobbiamo restituire alle cose il loro diritto alla vita e questo può accadere solo se rispettiamo determinate condizioni: “se le lasciamo sussistere accanto e assieme a noi senza volerle assorbire; se congiungono le nostre vite a quelle degli altri; … se rinunciamo a privilegiare rapporti di esclusivo possesso, accaparramento e dominio sugli oggetti; … se passiamo dalla cultura dello spreco a un rapporto sobrio ed essenziale con le cose; …”.

Conclude Bodei: “La decisione di conoscere e aver cura di alcune cose, senza precludersi la comprensione delle altre, implica non solo un atteggiamento di costante attenzione al mondo e alle persone, una volontà di sapere e un desiderio di amare, ma anche un ethos (e perfino una presa di posizione politica) per contribuire a fare una respublica della società toccataci in sorte”.

TartaRugosa ha letto e scritto di: Philippe Delerm (1998), La prima sorsata di birra, Frassinelli, Traduzione di Leonella Prato Caruso

Ecco una domanda filosofica che mi assale mentre attendo l’arrivo del risveglio dal sonno invernale: assaporiamo con gli occhi, col palato, col naso o con l’insieme dei tre sensi?

Come l’opera di Proust insegna, quel gusto della madeleine bagnata nell’infuso di tè o di tiglio, scatena emozioni che fanno risalire alle immagini di un lontano episodio dell’infanzia (Così ora tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di Swann, e le ninfee della Vivonne, e la buona gente del villaggio e le loro casette e la chiesa e tutta Combray e dintorni, tutto quello che vien prendendo forma e solidità, è sorto, città e giardini, dalla mia tazza di tè”).

A significare quindi che la fabbricazione della memoria necessita di agganci forniti dai canali percettivi: più agganci possiedi, più sensi utilizzi, più dettagli consideri, maggiore sarà la possibilità di raggiungere un ricordo sopito.

Negli studi sulla memoria si sostiene che è a partire dal canale visivo che si recupera nella maggior parte dei casi il ricordo.

Pensando alla lettura, il nostro canale visivo distingue le parole, non avverte il profumo, non sente il suono, non tocca superfici … Dal punto di vista sensoriale, le parole sono tendenzialmente povere.

Il mestiere di scrivere, l’arte di utilizzare le parole non è semplice: lo scrittore lavora con un mezzo che non ha nulla a che fare con la materia.

Ascoltando un brano musicale o ammirando un’opera d’arte si stimola prevalentemente uno specifico canale sensoriale. Con la parola scritta si va a colpire il cervello, che a sua volta deve rievocare un’emozione, una sensazione collegata a quella parola. Partendo da una descrizione, diventiamo capaci di creare con la nostra fantasia un’immagine basata sull’esperienza che ne abbiamo fatto nel corso della nostra esistenza.

Un bravo scrittore sa sfruttare la potenza evocativa della parola. Provocare o trasmettere al lettore l’intensità di un desiderio attraverso la costruzione della frase, presuppone abilità non indifferente nell’uso del mezzo “scrittura”, proprio perché deve poter accendere un concetto, una percezione, un’idea.

Philippe Delerm, da questo punto di vista, è riuscito a compiere una magia sensoriale attraverso 34 pennellate letterarie inerenti brevi istanti rubati alla quotidianità della vita rurale, dove il tempo e lo spazio diventano elogio di lentezza, pace e piccoli piaceri (forse) in via di estinzione.

Di questa sua capacità ne ho capito il magnetismo quando, dopo la lettura de “Il maglione autunnale” e la visione dei primi tramonti ottobrini ho avvertito la nostalgia del colore e dei profumi della coltre di terra ormai pronta al rimbocco:

”….Allora ci vuole un maglione nuovo. Mettersi addosso le castagne, il sottobosco, i ricci dei marroni, il rosso rosato delle rossole. Riflettere la stagione nella morbidezza della lana. Ma un maglione nuovo: scegliere il nuovo fuoco che comincia a spegnersi. Sul verde? Un verde Irlanda, pisello secco, nebbioso, whisky ruvido selvatico e solitario come i campi di torba, l’erba falciata. Sul rossiccio? Ce ne sono tante gradazioni, chiome da Ofelia, desiderio di merenda come prima, pane burro e marmellata, boschi soprattutto, rossiccio del suolo, del cielo, inafferrabili colori di sagre paesane e di legno, di funghi e d’acqua. E perché non sul grezzo? Un maglione a grosse trecce come se qualcuno avesse ancora il tempo di sferruzzare per te. Un maglione ampio: il corpo sparirà, diventeremo la stagione. Un maglione sulle spalle, sperando … Anche di per sé, è gradevole questa maniera di rappresentare la fine delle cose tono su tono. Scegliere il conforto delle malinconie. Comprare il colore dei giorni, un nuovo maglione autunnale”.

Che dire poi di quelle roventi impressioni di assolati pomeriggi agostani, mentre errando lungo il sentiero che conduce a “L’orto immobile”, risvegliano rimembranze di un’estate bruciante?

“…Vorremmo limitarci all’ombra. Ma il sole filtra tra i rami con un’implacabile dolcezza. E’ lui a rendere biondo tutto l’orto: le lattughe pigre ma anche le bietole accasciate al suolo. Solo le foglie delle carote resistono con un verde provocante, come se la loro leggerezza le preservasse da un languido abbandono. In fondo, lungo la siepe, è troppo tardi per i lamponi, al posto del velluto rubino granata c’è già un disseccamento scuro, una scoria rugosa. Dall’altra parte, lungo il muretto di pietra, si stende una spalliera di peri, con la disposizione simmetrica dei rami la cui l’oblunga opacità del frutto picchiettato di sabbia rossiccia dà un tocco di femminilità. … Fa caldo ma il prugno, l’albicocco, il ciliegio offrono un’ombra dove dorme anche il tavolo da ping-pong inutilizzato – qualche prugna rossa è caduta sulla vernice smeraldo scrostata. Fa caldo, ma nel cuore dell’agosto dorme nell’orto l’idea dell’acqua”.

O, ancora, quel sentore pungente e penetrante delle mele appena raccolte, poste a dimora nelle cassette di legno, (“L’odore delle mele”), che stuzzica voglie golose di affondare i denti nelle bucce colorate:

Entriamo in cantina. E subito ci colpisce. Le mele sono lì, allineate sui graticci – cassette da frutta capovolte. Non ci pensavamo. Non avevamo nessuna intenzione di lasciarci sommergere da un tale spleen. Ma è inutile. L’odore delle mele è un’onda travolgente. Come avevamo potuto fare a meno per tanto tempo di quest’infanzia aspra e dolce?

Devono essere deliziosi i frutti avvizziti, di quel falso prosciugamento dove in ogni grinza sembra essersi insinuato un sapore intenso. Ma non abbiamo voglia di mangiarli. Non vogliamo trasformare in sapore identificabile il potere fluttuante dell’odore. Dire che hanno un buon profumo, un profumo forte? No, c’è ben altro … Un odore interiore, l’odore di un sé migliore. Lì c’è racchiuso l’autunno della scuola. Con l’inchiostro blu verghiamo sul foglio pieni e filetti. La pioggia batte sui vetri, la serata sarà lunga …

Ma il profumo delle mele non è solo il passato. Si pensa al tempo che fu per via della portata e dell’intensità, di un ricordo di cantina umida, di solaio buio. Ma è da vivere lì, da tenere lì, in piedi.

Abbiamo alle spalle l’erba alta e l’umidore del frutteto. Davanti, come un respiro caldo che si sprigiona nell’ombra. L’odore ha preso tutti i marroni, tutti i rossi, con un po’ di acido verde. L’odore ha distillato la morbidezza della buccia, la sua impercettibile rugosità. Abbiamo le labbra secche, ma sappiamo che questa sete non deve essere placata. Non succederebbe niente a mordere la polpa bianca. Bisognerebbe diventare ottobre, terra battuta, volta di cantina, pioggia attesa. L’odore delle mele è doloroso. E’ l’odore di una vita più intensa, di una lentezza che non meritiamo più”.

Ecco pertanto come la parola può comprendere due aspetti visivi: l’uno riferito all’immagine della grafia, l’altro all’immagine della situazione che trascina con sé la cascata delle connessioni a rete, degli intrecci infiniti, del telaio tutto da scoprire della nostra memoria. Me ne ricorderò quando, riemergendo dalla tana, troverò le nuove meraviglie a disposizione di occhi, naso e bocca,

TartaRugosa ha letto e scritto di: Serena Dandini (2022), Cronache dal Paradiso, Einaudi Torino

A noi tartarughe piace sognare soprattutto quando, sepolte nell’attesa del transito invernale, abbiamo molte ore a disposizione per farlo. E che cosa appare nel nostro cervello ibernato? Ovviamente distese di verde trifoglio, gialli fiori di tarassaco, tenere cimette di ortica, infiniti prati da esplorare …

E le parole confortanti degli umani che, come noi, fanno del giardino il loro paradiso terrestre:

Allora cos’è in fondo il Paradiso se non un meraviglioso giardino?”

Con Serena Dandini la traccia che conduce verso l’ideale di Eden esclusivi inizia dalla casa di campagna dell’autrice, luogo dell’infanzia e contenitore di memorie familiari che si schiudono qui e là come tracce indelebili di legami, giochi, suppellettili, mobili, colori, profumi, rumori. Voglia di fuggirne, ma desiderio di tornarvi – col ricordo – per ritrovarvi quell’azzurro dell’ortensia della nonna, impossibile da riprodurre nonostante tutti gli espedienti praticati.

A questo album di famiglia rivissuto attraverso la penna si intrecciano altri taccuini di viaggio, racconti che si riferiscono ad aneddoti, ossessioni, passioni di personaggi noti e meno noti, ma aventi lo stesso denominatore comune: il giardino, l’incanto di un Eden personalizzato, la scoperta di nuovi orizzonti paradisiaci.

C’è chi cerca il Paradiso nel tempo passato, chi confida speranzoso nell’aldilà o chi, con più tenacia, vuole raggiungerlo a tutti i costi sulla Terra”.

Fra i tanti che grazie all’autrice mettono in scena i sogni inseguiti, troviamo Claude Monet e le sue amatissime ninfee: “Era così posseduto dalla visione di quei fiori e dai riflessi che proiettavano sull’acqua che negli ultimi anni non ha dipinto altro”. Oggi, nel Museo dell’Orangerie di Parigi, possiamo ammirare novanta metri di dipinti (dodici tele giganti di quattro metri per due) equiparabili a distese immense di pittura in cui immergersi, sperimentando l’emozione di chi con tanta devozione le ha fermate nel tempo.

Leggiamo anche la storia di Jeanne Baret che travestita da ragazzo, fingendosi eunuco, accompagna sul veliero di De Bougainville il botanico Commerson, spinta da un indomabile spirito d’avventura e desiderosa di scoprire sempre nuove specie vegetali. Sarà proprio lei a trovare “uno splendido fiore esotico. Il fusto ricorda quello di una vite ed è forte e affusolato, le tonalità delle ghirlande, dal rosso al malva, sono rese più intense dal minuscolo fiore bianco che nasce all’interno di ogni corolla”. Commerson, rimasto a bordo perché impedito al cammino da dolori a una gamba, si onorerà del merito della scoperta del fiore e dell’attribuzione del nome, che, per piaggeria verso l’ammiraglio che l’ha voluto a bordo, battezzerà bougainvillea.

Non manca il grande “Fabrizio De Andréimpetuoso giardiniere che, come un alchimista d’altri tempi, sperimentava formule magiche mischiando diversi tipi di stallatico ad acqua tiepida, spargendone secchiate sulle aspre terre della Gallura, con il sogno di far crescere nel suo Paradiso camelie e azalee, piante refrattarie a quelle latitudini battute dal libeccio.”

E incontreremo la frenesia di Frederic Eden, gentiluomo inglese trasferitosi a Venezia verso la fine del’Ottocento, il quale, forse per onorare il suo nome, “decise di trasformare la terra brulla di un angolo della Giudecca, in un Paradiso terrestre” e nonostante le avversitàcausate dall’acqua salmastra “riuscì in pochi anni a realizzare quella che sembrava un’utopia”. Ne faranno memoria i frequentatori ospiti di quel parco meraviglioso – fra cui Gabriele D’Annunzio e Eleonora Duse, Marcel Proust, Rainer Maria Rilke, Jean Cocteau, Henry James – trovando più che verosimile associare quel luogo ad un santuario di bellezza.

Purtroppo ai tempi attuali nulla più è rimasto se non quelle testimonianze, poiché alla morte di Eden e in seguito ai vari passaggi di proprietà, l’ultimo, l’artista austriaco Hundertwasser, abbandonerà le cure e la manutenzione del paradiso lagunare, lasciando trasformare il giardino in una selva impraticabile e ordinando che alla sua morte nessuno vi ponesse mai più mano o permettesse visite.

Nabokov invece risveglia i suoi sensi solo quando in mezzo ai boschi rincorre con un retino le farfalle. “Non c’è successo letterario, onorificenza o premio che possano eguagliare il piacere che gli procura lo studio scientifico di una farfalla.

L’imperatrice Giuseppina Bonaparte, originaria della Martinica, riesce incredibilmente a riprodurre una giungla tropicale alle porte di Parigi. “Nel salone in vetro e ferro riscaldato da dodici enorme stufe a carbone, ha realizzato il suo Paradiso terrestre: è difficile farsi spazio fra strelitzie, orchidee e rose in fiore. Gigantesche piante esotiche creano una selva intricata che offre tutte le possibili sfumature di verde, punteggiate dell’arancione di ananas maturi in pieno novembre”

La scrittrice Agatha Christie si arruola ventenne tra le infermiere volontarie dell’ospedale cittadino per assistere i giovani soldati feriti durante la prima guerra mondiale. Forse è il contatto continuo con la morte che l’aiuterà a descrivere ogni tipo di decesso nei suoi innumerevoli romanzi gialli o forse è l’utilizzo di numerosi unguenti preparati a base di veleni per le medicazioni che farà di lei la serial killer più letale della narrativa (la morte per avvelenamento è il metodo più frequente nei suoi delitti).

La fama e il successo delle sue opere coroneranno il suo sogno: tornare in campagna, in una casa con giardino E che giardino…”vivace e movimentato, ricco di aiuole lussureggianti, macchie di specie tropicali portate dai suoi viaggi e, quasi un omaggio al proprio successo, molti alberi di mandorle amare, frutto proibito da cui si estrae il cianuro”.

Alexandra David-Néel, anticonformista bramosa di avventure, muore a centouno anni, pochi mesi dopo il rinnovo del passaporto per una spedizione in Oriente. Formidabile donna d’azione riveste i ruoli più disparati: giornalista, orientalista, suffragetta battagliera per i diritti delle donne, anarchica e femminista, nonché prima cantante all’Opera Company di Hanoi. Ha un obiettivo ben preciso: raggiungere il suo personale Paradiso a Lhasa, capitale sacra del Tibet. Ci riuscirà all’età di 55 anni dopo infinite e pericolose peregrinazioni.

I Giardini della Mortella di Ischia sono invece il frutto della caparbietà del musicista William Walton e sua moglie Susana: insieme, in dieci anni di lavoro, trasformano una valle di terra scura simile a una cava di pietra “in uno dei giardini più belli d’Italia incastonato in un panorama mozzafiato” trasformato in seguito “in un luogo a disposizione dei giovani compositori di tutto il mondo, che vivono e studiano in quell’incanto creando nuova musica”.

Ci imbattiamo, verso il finale, nell’ostinazione di Margaret Mee, pittrice botanica che insegue, per dipingerlo en plain air, lo sbocciare del fiore di luna, fenomeno dalla flebile durata dello spazio di una notte. In Amazzonia ”a settantasette anni e con due trapianti di anca all’attivo, anziché limitarsi a curare l’orto di casa, Margaret sta navigando su un remoto affluente del Rio Cuieiras quando all’improvviso vede il fiore di luna in bocciolo. E’ come una visione. Il respiro si spezza. Ferma la barca. Apre il blocco di disegno, impugna il pennello con gesto consumato e inizia a dipingere, lo fa cogliendo l’attimo, senza riflettere, il cuore tremante e la mano ferma”.

Le tartarughe sono testarde, ma anche sentimentali e visionarie. Immaginano che, spostandosi sempre un po’ più in là, dove esiste la terra nuovi gloriosi miracoli siano possibili. E, come gli umani, li vanno a cercare.

Tartarugosa ha letto e scritto di: Camille De Angelis, (2022), Bones and all, Traduzione di Vincenzo Latronico, Mondadori, Milano

Appartengo a quella generazione che, durante gli anni tardo-adolescenziali, nelle domeniche invernali in compagnia di un numero ristretto di amici, amava trascorrere il pomeriggio nelle fumose sale cinematografiche. Il rito era consueto: scorrere le pagine del Corriere, scartare i film da cassetta e scegliere quelli ritenuti “impegnati”. Quanto più indecifrabili, tanto più must da non perdere.

Era di rigore, all’uscita, con le caldarroste in mano, elucubrare su significati e interpretazioni cavillose. Molto spesso, nel caso fosse tratto da un romanzo, non mancava mai la considerazione: “Certo che il libro è molto meglio”, sfoggiando così cultura e sapienza.

Tali ricordi riaffiorano poiché nel caso del libro appena terminato, letto dopo la visione del film di Guadagnino, vige l’inverso “Certo che il film è molto meglio”, chissà se perché nel frattempo sono invecchiata o perché sono i tempi ad essere cambiati.

Il tema del romanzo non nasconde un certo che di macabro, essendo relativo al ben radicato tabù del cannibalismo, ma il linguaggio narrativo evita lo splatter e lascia intuire gli accadimenti solo attraverso inquietanti indizi.

La storia di Maren pertanto non ripugna, ma commuove, esortando il lettore a partecipare – e talvolta parteggiare – alle sue difficoltà incontrate nel prendere consapevolezza dell’ineluttabilità della sua condizione:

Quella sera ho capito che ci sono due tipi di fame. Ce n’è uno che posso soddisfare con gli hamburger e il latte al cioccolato, ma c’è un’altra parte di me che resta in attesa. Può aspettare per mesi, magari anche anni, ma prima o poi dovrò cederle. E’ come se ci fosse una voragine dentro di me e quando assume quella forma là, c’è soltanto una cosa che la possa riempire

e della solitudine con cui è costretta ad affrontare i suoi impulsi (la madre l’abbandona, il padre, scoprirà, è ricoverato in una clinica psichiatrica).

La verità è come le fauci di un mostro, un mostro ben più pericoloso di me. Ti si spalanca sotto i piedi come una voragine, ci caschi dentro, e vieni divorato. Ovviamente mi era balenato per la testa il sospetto che mia madre avesse paura di me … Non mi aveva mai amata vero? Si era sentita responsabile per ciò che facevo, come se la colpa di ogni mia azione ricadesse su di lei che mi aveva messo al mondo. Ogni gesto di affetto che mi aveva riservato nasceva dal senso di colpa, non dall’amore. Per tutto quel tempo in realtà non aveva fatto che attendere il momento in cui finalmente avrebbe potuto lasciarmi da sola.”

La sua caratteristica non è unica. Maren scoprirà che altri, come lei, hanno attitudine per quella “brutta cosa” e nell’incontro con Lee, pure cannibale, nascerà una relazione che porterà entrambi ad arrivare alle origini della loro enigmatica peculiarità.

Nell’esplorazione di se stessa e nel bisogno di perdonarsi ed essere perdonata, il cammino della ricerca di Maren potrà solo confermare che ogni tentativo di redenzione è destinato al fallimento.

Nel film, invece, la trasposizione che Guadagnino ne fa sullo schermo si arricchisce di numerosi spunti.

Troviamo infatti una Maren fragile e impaurita, perennemente in fuga alla ricerca della madre mai conosciuta, e che diventa predatrice solo per difendersi, aborrendo lei stessa questa sua pulsione, ma impossibilitata a sbarazzarsene del tutto.

Simbolicamente ne ho personalmente tratto significazioni molto aderenti al nostro tempo:

– la crescita in assenza del padre, inteso non nell’unico senso biologico, ma proprio come figura mentore di accompagnatore dell’adolescente verso l’adultità; una solitudine ben rappresentata dalle sconfinate campagne deserte che i ragazzi si lasciano alle spalle, nella loro fuga continua da persone e situazioni pericolose, alla ricerca del proprio posto in un mondo disposto ad accettarli per quello che sono;

– la relazione amorosa che nei due ragazzi, consapevoli della loro diversità, diventa lo strumento per sentirsi accomunati, per potersi riconoscere e accettare;

– la diversità, di cui il cannibalismo è quell’estremo simbolo del nostro bisogno di inglobare tutto ciò che vediamo a qualsiasi costo, ma anche la faticosa condizione in cui ci si può trovare nel confrontarsi in un mondo che premia solo il potere e la competizione;

– altri accenni a temi sociali (l’omosessualità, il femminicidio,la violenza, la dipendenza);

– la morte come irrimediabile fine dell’esistenza. Una morte che ci porrà di nuovo di fronte all’inevitabile, ma in questo caso la decisione di Maren di nutrirsi di Lee ferito a morte, obbedendo alla sua supplica, sarà il compimento del suo supremo gesto d’amore.

Lee e Maren, definitivo corpo unico che trascende i limiti della carne, potrà forse rappresentare il passo finale per aiutare la ragazza a sopravvivere in un mondo in cui ci si trova costretti a fare tutto da soli.

TartaRugosa ha letto e scritto di: Mélissa Da Costa (2021), I quaderni botanici di Madame Lucie, Traduzione di Elena Cappellini, Rizzoli/BUR, Milano

Accadono improvvisi, quando meno te li aspetti, eventi capaci di interrompere il flusso della vita così come lo conoscevi, annientando ogni promessa di futuro.

E’ proprio quello che succede ad Amande, mentre attende il rientro di Benjamin per una gioiosa serata all’aperto nello scoccare dell’arrivo dell’estate, mentre indugia col suo pancione prossimo a dare alla luce una bimba.

Benjamin non rientrerà e a lei spetterà la drammatica incombenza di riconoscerne il corpo straziato dall’incidente di moto. Lo shock ricevuto causerà il parto prematuro e anche la minuscola Manon non sopravviverà alla nascita. Tutto nel giro di poche ore.

Un doppio lutto tragico che lascia solo la voglia del silenzio pensoso, perchè ogni parola è insufficiente, come lo è il contatto col mondo da cui decide di assentarsi, scegliendo una casa isolata nell’Auvergne, dove si rinchiuderà, sbarrando fuori anche la luce del giorno ed eliminando ogni strumento che segni il passare del tempo.

Nel giro di qualche giorno ho deciso di stabilirmi in mezzo al nulla. Avevo bisogno di scappare dall’estate. Avevo bisogno di calma per pensare. Pensare a loro.”

Nella disperazione che il doppio distacco ha scatenato, nell’ordine sconvolto dall’abbattersi degli eventi, Amande affronta con se stessa la ricomposizione della sopravvivenza. E’ un percorso lungo, faticoso, quasi una missione per trapiantare ciò che è stato in nuovo orizzonte di senso.

Lasciata alla spalle la fase del torpore, connotata dall’incredulità e dallo smarrimento totale, subentrano i passaggi più impegnativi per risalire il baratro e sbiadire le immagini che ingombrano i ricordi della perdita. Insieme a lei fissiamo le parole chiave che puntellano il suo incerto cammino: il primo comandamento è Lascia entrare.

Ho deciso che non avrò alcun calendario. Niente giorni, niente date, niente scadenze, niente incombenze precise. Ho bisogno di libertà. Solo un foglio bianco che mi ricordi il mio obiettivo, la ragione che mi spinge a fare un passo avanti. Il problema è che non ho ancora deciso quale possa essere. … Qualche parola, non di più. Prendo la biro che trovo sul tavolo, mi avvicino. Scrivo la prima parola: Lascia. Aggiungo la parola entrare. Una frase in sospeso, che attende il seguito. Non so. Lasciare entrare cosa? Il sole? La vita? Preferisco fermarmi lì. E’ già abbastanza”.

Scopriremo l’importanza di un gatto e del passato dell’exproprietaria dell’appartamento preso in affitto che, come lei, per elaborare il lutto della perdita del marito aveva scelto di fare entrare nella propria vita il giardino, l’orto e una minuziosa descrizione di ogni atto compiuto a contatto con la natura.

I quaderni botanici di Madame Lucie, che Amande ha salvato dal trasloco affrettato da parte della figlia Julie, diventeranno il suo viatico quotidiano perché, se hanno funzionato per madame Lucie, forse aiuteranno anche lei.

Sono pieni di scritte. I calendari. E anche le agende. Liste di cose da fare, promemoria, consigli. E’ annotato persino il meteo dl giorno. … Sa perché lo facesse?

Ha iniziato a farlo dopo la morte di Paul, mio padre, suo marito .. Ha iniziato a stendere delle liste per non lasciarsi andare”.

Quelle liste diventano suo punto di appoggio, una forma di protezione che talvolta serve ad instaurare pure un dialogo con Benjamin e a sorridere per la sua sorpresa nel vedere la giovane sposa impegnata in mansioni fino allora impensabili e sconosciute.

La seconda tappa della ricostruzione di sé è racchiusa nella parola Celebra, laddove non esiste né il tempo né il desiderio di cercare conforto nella fede o in un Dio in cui non ha mai creduto. Ancora una volta la risposta sarà trovata nel fazzoletto di terra e nelle candele che Julie le ha insegnato a realizzare.

Ma non mi servono chiese, preghiere o rosari per commemorare i miei morti. Ho un salice piangente, che ha il nome di un defunto, un gatto che mi ha adottato e delle candele che ho modellato con le mie mani. Ho la luna piena e anche la brezza, perché senza di lei le candele non danzerebbero … E nemmeno le nostre ombre.”

Ho iniziato a celebrare il vento tra gli alberi, appendendo degli utensili da cucina, dei barattoli di latta e delle conchiglie. … Ogni tanto accendo delle candele sul davanzale della finestra. E parlo alle verdure, alla corteccia degli alberi e anche alla luna.”

Per riorganizzare il mondo c’è bisogno di un terzo passaggio: Condividi.

Il ruolo degli altri è fondamentale nell’attraversamento della sofferenza e Amande lo scoprirà grazie alla ripresa dei contatti coi ragazzi del Centro dove Benjamin lavorava, all’energia di Julie, implicata pure lei nella cura della ferita della separazione dal marito, all’amorevole presenza della famiglia di Benjamin che, in modalità diverse, subiscono l’impatto del lutto in tempi successivi, e, strano ma vero, anche alle veloci visite della madre, sempre alla ricerca di un futuro migliore, sicura di averlo trovato alla Réunion e a una nuova relazione. Non ultimo, probabilmente simbolo di riappacificazione col destino, con la neonata Mae, figlia del fratello di Benjamin e che coincidenza aveva voluto che nascesse a poca distanza da Manon.

Le prime, coraggiose, uscite di casa appaiono come segno di nuove prospettive.

Entro in cucina con il cappotto ancora addosso … Fuori il vento soffia minaccioso. Sono felice di essere a casa. Sono stata via solo un giorno, il primo da quando mi sono trasferita qui, e la casa mi è mancata. Mi addormento di buon umore, quella sera. … Una felicità rabberciata, ma comunque una felicità”.

Il vino bianco è dolce. I panini gustosi. Fatico ancora a credere di essere qui, nell’Auvergne, lontano da casa, in compagnia della figlia dell’ex proprietaria. La mia vita non ha più niente a che vedere con quella di dieci mesi fa.”

L’ultima riparazione di un tragitto fatto di salite e discese è nell’imposizione Lascia andare.

Nel rigurgito del dolore, Amande scoprirà che nella cavità del pino in cui aveva depositato la sua fede nuziale ora c’è un nido di pettirossi:

cinque uova bianche tendenti all’azzurro, con delle macchie rosse, nascoste nel nido dentro la cavità nel tronco. Cinque uova nel mio pino sacro. E’ emozionante come veder sbocciare i fiori o crescere le fragole verdi. E’ la vita che si annida dappertutto nella mia vecchia casa”.

Solo quando lo troverà vuoto maturerà una nuova consapevolezza:

ed è in quell’istante che la vedo. Un corpicino paffuto. Due biglie nere che mi fissano. Si è appollaiata sul bordo del buco. Dove prima c’era il nido. La riconoscerei tra mille. E’ mamma pettirosso. … Non ho bisogno che mi ricordi come funziona la vita, con il suo ciclo naturale. Vorrei che almeno per oggi mi concedesse di essere triste.”

Il rito di passaggio verso nuovi giorni a venire è compiuto. Amande abbandonerà definitivamente la casa in cui ha vissuto con Benamin e il lavoro dove aveva chiesto l’aspettativa.

I quaderni botanici hanno risvegliato una parte di sé ignota: il suo futuro sarà illuminato da una suggestiva attitudine artigianale, trasformata, con il supporto di Julie, in piccola impresa che colorerà il suo nuovo tempo.

Inizio a disegnare su un foglio i braccialetti e le coroncine, mi aiuta a visualizzarli. Schizzo le campanule color malva dei giacinti, la forma così particolare della trombetta dei narcisi, i petali viola intenso dei crochi, l’edera che si intreccia con i fiori, dando un tocco di verde, e le margherite, fresche, semplici, per un tocco più raffinato di bianco. Immagino diversi modelli. Uno molto colorato, sui toni del blu, del malva e del viola… è energico pieno di vitalità … le fascette le scelgo in base ai modelli: quello colorato, quello raffinato e quello minimalista”.

E’ passato un anno, e il 21 giugno successivo non ha rimosso i giorni del passato ma li ha trasformati in dolce ricordo.

TartaRugosa ha letto e scritto di: Alba Donati (2021), La libreria sulla collina, Einaudi, Torino

Quando sulla scrivania arriva un testo come questo, i libridinosi esultano di felicità. Non solo perché pensano a quanto sarebbe bello avere una simile libreria sotto casa, ma perché, amabilmente invidiosi, vorrebbero essere loro stessi gli autori delle pagine che, sotto forma di diario, si rincorrono fra memorie, citazioni, stimolazioni sensoriali, segnalazioni di libri ed autori che già desidereresti avere sul tavolo di lettura.

E anche perché è una cronistoria che mostra come sia possibile realizzare un sogno, quando ci credi davvero.

La libreria era dappertutto, prima ancora di nascere. Aveva già iniziato a fare incantesimi quando ancora era un poggio scosceso con qualche cespo di insalata, due pali arrugginiti e un filo per stendere i panni”.

Non si tratta infatti di una libreria convenzionale: Sopra la Penna è una specie di cottage-chalet letterario di legno che trasmette il sapore di casa, che affaccia su un giardino e su un panorama mozzafiato delle colline toscane, una libreria mignon che sorge a Lucignana, un paesino arrampicato su un monte di 180 persone.

Cosa rispondere a chi chiede come m’è venuta l’idea di aprire una libreria in un posto sperduto. Il fatto che per me questo posto sperduto è il centro del mondo perché lo guardo con gli occhi di una bambina che ha salito scale traballanti e vissuto in case gelide in gelidi inverni, una bambina che ha riparato come poteva le cose rotte.

Perché l’infanzia una trappola, ha il brutto e il bello, solo che devi trovare la bacchetta magica per trasformare l’uno nell’altro. Adesso ho il mio cocchio pieno di libri, sono a posto.

Nella vita di Alba entri discreto, in punta di piedi, incontrando lentamente le persone della comunità che hanno svolto un ruolo importante nella crescita di una bambina in cui “l’idea della libreria giaceva di certo acquattata” dai primi anni di vita. Quelle stesse persone che si stringeranno attorno a lei per aiutarla ad affrontare le avversità che pare vogliano contrastare la sopravvivenza di un luogo fatato.

Perché quando credi a un’idea, la coltivi e la curi senza mai arrenderti di fronte alle difficoltà (l’incendio dopo un mese dall’apertura, il nefasto periodo del lockdown causato dal Covid, far quadrare i conti). Con leggerezza poetica, sfogliando giorno per giorno il diario di una nascita, ci si ritrova a sentirsi parte di quella piccola comunità stretta intorno ad Alba, ognuno con i mezzi che può mettere a disposizione, per difendere un bene comune così prezioso.

E come solo una penna poetica sa fare, respiri, vedi, assapori, annusi un mondo di magia, quasi ti fossi piacevolmente smarrito in una fiaba reale.

Al giardino si accede da un cancello verde salvia, si scende n gradino e sei in una fiaba.. C’è il susino selvatico, e il pesco, il plumbago, il glicine, rose e peonie. I tavolini e le sedie sono in ferro, ci sono due Adirondack celesti e due sdraio con il telo a fiori.

Il tè è una tappa fondamentale della visita alla libreria … Tè verde, nero, rosso, bianco. Poi si sceglie fra vaniglia, bergamotto, ginseng, mango, lime, curcuma, zenzero, cannella, mandarino, miele e limone. Il Tè che viene dal Kent si presenta in confezioni da collezione con sopra il volto di una scrittrice e di uno scrittore. E naturalmente ci sono le marmellate letterarie, la marmellata di Virginia Woolf con arance amare e whisky … di Colette con susine e anice stellato … inutile cercarle si trovano solo da noi.

Per non parlare degli oggetti (da brava TartaRugosa viaggio sempre con la casa addosso, mio vero riparo):

E’ arrivato The Literary Witches Oracle, un mazzo di strani tarocchi che interroga il futuro attraverso le figure di alcune scrittrici. … le calze fatte da una signora in Israele con le parole di Orgoglio e pregiudizio e di Alice nel paese delle meraviglie… E’ così che riempio la mia libreria, con libri e oggetti che dai libri provengono.

Geniale la chiusura giornaliera con l’elenco dei libri ordinati:

Mi piacciono i libri che ti fanno leggere altri libri. Una catena che non dovremmo mai interrompere. L’unica forma di eternità che possiamo sperimentare è qui sulla terra, diceva Pia (Pera). Il giardino è una forma dell’eternità”.

Vero brivido libidinoso trovarci anche i nomi delle autrici preferite: Pia Pera, Emily Dickinson, Wislawa Szynborska, Alice Munro, Jane Austen, Annie Ernaux, Magda Szabò, Lucie Di Mélissa Da Costa,Laura Imai Messina,Vivian Meier, Frida Kahlo; fra gli autori Mark Strand, Emanuele Trevi, Kent Haruf, Murakami Haruki … e tanti, tanti titoli più che mai accattivanti di cui prendere nota per sprofondare in nuove storie.

Tante persone cercano storie, non importa chi le abbia scritte, servono storie per distrarsi, per immedesimarsi, per farsi trasportare altrove. Chiedono storie che non facciano male, che siano disposte a curare una ferita, a infondere fiducia e bellezza.

Grazie quindi ad Alba Donati per avere dato una scossa al desiderio di saperne di più, alla libertà dei pensieri, alla voglia di diventare pellegrini verso la sua creatura e ricordare sempre che:

la libreria è una scuola, una finestra su un mondo che pensiamo di conoscere e non è vero”.

TartaRugosa ha letto e scritto di: Clara Dupont – Monod (2022), Adattarsi, Traduzione di Tommaso Gurrieri, Edizioni Clichy (FI)

Ma i bambini sono gli unici a scambiare le pietre per giocattoli. Ci danno un nome, ci colorano, ci ricoprono di disegni e di scritte, ci dipingono, ci incollano addosso gli occhi, una bocca, capelli di fili d’erba, ci impilano per fare case, ci lanciano per farci rimbalzare, ci mettono in fila per fare la linea della porta o le rotaie di un treno. Gli adulti ci usano, i bambini ci distraggono. E’ per questo che siamo così profondamente legate a loro. E’ una questione di gratitudine. Gli dobbiamo questo racconto, e ogni adulto dovrebbe ricordarsi di essere debitore verso il bambino che è stato.

Sono le pietre della Cevenne a offrire il loro sguardo su ciò che avviene dentro una famiglia in cui arriva un figlio inadatto. Di lui, solo poche parole: sarebbe rimasto cieco, non avrebbe camminato, sarebbe stato privo di parola, e le sue membra non avrebbero obbedito a niente poiché il cervello non trasmetteva ciò che doveva. Una presenza-assenza che pervade lo svolgimento della narrazione, mostrando come, nell’ordinarietà tranquilla di una famiglia qualsiasi, un tale evento possa sconquassare i singoli destini, influenzandone lo sviluppo e inclinazioni.

Quello che invece le pietre raccontano riguarda le prospettive da cui i fratelli si affacciano all’accoglienza della nuova nascita: il maggiore, la minore e l’ultimo (nato dopo l’inadatto che aveva superato i quattro anni di vita diagnosticati). Verranno sempre definiti dall’ordine cronologico di comparsa nel mondo, senza un nome proprio, poiché il dolore è universale e nell’avversità ognuno di noi può trovare il suo rispecchiamento.

La natura della valle in cui vive la famiglia è un’altra protagonista della storia, con la sua vegetazione, i suoi animali, il suo fiume, i cicli delle stagioni, e le turbolenze atmosferiche, talvolta paurose e deflagranti, esattamente come le interruzioni e le deviazioni dell’esistenza. Diventerà mezzo di comunicazione tra l’inadatto e il maggiore che, contrariamente alla minore, eserciterà l’accudimento dello sfortunato fratello con la più totale dedizione, sfruttando la bellezza del creato e raccontandolo al bambino col linguaggio dei suoni e dei rumori. per arrivare a infrangere la barriera che lo isola dal mondo.

Aveva capito presto che l’udito, l’unico senso che funzionava, era uno strumento prodigioso…. Il mondo era diventato una bolla sonora, cangiante, in cui era possibile tradurre tutto con il rumore e la voce.”

In un’età ancora fanciullesca, il maggiore impara velocissimamente che se l’inadatto non imparerà mai niente, sarà lui stesso a insegnare agli altri. E vede la sua vita cambiare, ma senza rinunce o sacrifici obbligatori: era maturata in lui la consapevolezza che i più deboli vanno protetti e amati per quello che sono.

Prima c’era la vita, gli altri. Adesso c’era suo fratello Amava più di ogni altra cosa l’impassibile bontà, il suo primordiale candore. La sua felicità si riduceva a cose semplici, la pulizia, la sazietà, la morbidezza del suo pigiama viola o una carezza. Il maggiore capiva che in questo risiedeva l’esperienza della purezza. E ne era sconvolto.”

Per il maggiore la cura prevale sopra ogni altra cosa. Se ne accorgerà anche la minore, che fino alla nascita dell’inadatto era stata la sua ombra e che ora ha dovuto cedere il privilegio dell’attenzione. Lo percepisce chiaramente: ora è l’inadatto la ragione di vita del fratello maggiore. Giorno e notte si perde in quel povero corpo, si immedesima, si prodiga e imparerà a conoscere il mondo e le sue contraddizioni, l’indifferenza, la curiosità malvagia, la burocrazia. Quando inadatto sarà respinto dall’istituto cui i genitori si erano rivolti per l’aiuto nella cura, il maggiore assisterà attonito alla trafila dei certificati medici, delle cartelle neuropsicometriche, del fare la coda, correre dietro ai documenti, rimanere in attesa al telefono, la necessità della supplica.

Ne trasse un odio inesauribile verso la burocrazia. Fu l’unico sentimento negativo che si ancorò in lui in modo definitivo.”

Quando si trova una nuova casa per bambini come l’inadatto, affidati alle suore, il maggiore è l’unico a sprofondare in un’inesauribile e sconfinata tristezza. Il divano e il letto vuoti sono una visione inaccettabile, la mancanza fisica lo trafigge, la preoccupazione per un trattamento inadeguato di mani sconosciute lo tramortisce. La sofferenza diventa così totale che persino il ritorno periodico di inadatto non è sufficiente a restituirgli la gioia del rivederlo: ha troppa paura del successivo abbandono. Meglio schermarsi dietro l’arretramento, rimuovendo emozioni troppo devastanti.

Ma non riesce a mantenere a lungo questo atteggiamento e lentamente cerca di recuperare il tempo perso, di perdonare, di perdonarsi e accettare la svolta del ricovero come nuova tappa del destino, portando alla luce un sentimento nuovo e potente.

Perchè alla fine quella prova si era trasformata in forza. E anche se aveva perso l’abitudine di confidarsi, di aprirsi, di invitare i suoi amici, ne aveva ricevuto, in cambio, quell’amore prezioso.”

La morte dell’inadatto lo fa ripiombare nell’isolamento. La traiettoria del suo futuro non prevede ripensamenti, la formazione di nuovi legami affettivi, la felicità. Troppo pericolosi perché forieri di perdita. La matematica e i numeri saranno l’unica consolazione, perché i numeri non tradiscono, sono affidabili e non riservano brutte sorprese.

Ha perso la pace. In lui qualcosa si è trasformato in pietra, che non significa essere insensibile ma semmai resistente, immobile, implacabilmente identico giorno dopo giorno.”

Esattamente all’opposto, invece, i sentimenti e il comportamento della minore.

Lei non provava nessuna tenerezza. Quello che vedeva era una marionetta pallida che richiedeva le cure di un neonato eterno. … Il bambino distruggeva in silenzio, si era preso la gioia dei suoi genitori, aveva trasformato la sua infanzia e sequestrato il suo amato fratello maggiore.”

Le pietre vedono e ascoltano. Sanno che i bambini comprendono ciò che accade intorno a loro, ma non sempre sono capaci di tradurre le proprie emozioni in un linguaggio appropriato. Ed è proprio questo che impegna la minore: utilizzare le sue emozioni dirottandole verso comportamenti aggressivi e rabbiosi, irrisolti persino dalle tre psicoterapie intraprese.

Io, la minore, mi oppongo sempre.”

L’unica a comprenderla, a non giudicarla, sarà la nonna e la cancellazione del bambino dalla sua vita. La minore cercherà di appropriarsi delle gioie della giovinezza, rassegnandosi anche all’allontanamento del maggiore.

Accettare era meno doloroso che sentirsi esclusa. Preferiva un fratello maggiore sciolto nel dolore a uno felice senza di lei.

Nel susseguirsi dei giorni, tuttavia, succede che anche per la nonna arrivi la fine. E con essa il crollo della minore che, pur non sapendolo ancora, cercherà nel suo futuro la terra portoghese tanto cara alla nonna e ai suoi racconti.

Il suo cuore si coprì di una pellicola di ghiaccio. La minore diventò un blocco di pietra. Il suo cuore era stato strappato, non lo aveva più, per lei era finita.”

Ma le pietre sono resistenti.

La minore osserva il dolore che alberga nella sua famiglia. Il maggiore lontano, il padre scosso dalla rabbia, la madre annientata dalla perdita della propria madre.

Non era più l’ora del dolore. Era l’ora del salvataggio di una famiglia in pericolo. Suo padre diventava violento, sua madre muta, e il maggiore era già un fantasma. Era l’ora di combattere.”

La nuova missione di mettere in salvo gli affetti le restituisce la pace, ora che nel suo presente è apparso un quaderno per elencare i problemi e trovare le soluzioni. Meccanicamente nella lista rientravano ogni giorno tutte le disfunzioni osservate e, accanto, le alternative possibili per eliminarle. Allineando la razionalità al sentimento, la minore riesce in questo modo a spuntare gli obiettivi prefissati, accontentandosi anche di piccoli gesti, di parole strappate, dell’abbozzo di un sorriso.

Noi la guardavamo nella corte posare il quaderno come se prendesse a schiaffi il tavolo e annotare, premendo con la penna sulla carta, l’avanzare della guerra. Si adattava, sotto il nostro sguardo, proprio come avevano fatto suo fratello, i suoi genitori e tanta gente prima di loro, attirando ogni volta la nostra ammirazione. Sarà raccontata primo o poi l’agilità che sviluppano coloro che la vita maltratta, il loro talento nel trovare ogni volta un nuovo equilibrio, sarà raccontato il funambolismo dei perseguitati?”

La minore ripara con abnegazione i cocci della propria famiglia e ne formerà una propria, non prima di essere finalmente riuscita a sbloccare anche il suo, di dolore.

Di tutta questa storia – fatta di resistenza proprio come loro – le pietre hanno ancora un capitolo cui assistere: l’arrivo di ultimo, quando maggiore e minore sono ormai grandi, quando inadatto è morto, quando padre e madre, alla notizia della gravidanza, trepidano per la paura di un nuovo imperfetto.

Ultimo sembra nascere con l’istinto di non creare nessun problema, per compensare quello che l’aveva preceduto.

Lo sapeva. Era nato con l’ombra di un morto.”

Ultimo ama la Storia: “la Storia era un viaggio in un continente ignoto e che tuttavia era in armonia con il suo presente. Si sentiva situato tra migliaia di vite vìssute e di altre vite future. Perché così non era più l’ultimo.”

Ama la natura, ama i suoi genitori e i fratelli lontani. Ama anche inadatto, che non c’è più, ma che sente dentro di sé: gli parlava spesso, gli rivelava il suo universo segreto con la certezza di essere capito.

Che difficile compito spetta a ultimo. Raccogliere i fantasmi del passato, senza riaprire con le sue domande ferite ancora suscettibili. Nella ricerca di un equilibrio anche per se stesso sviluppa una notevole intelligenza, E’ sensibile, dotato di spirito, attento, empatico. Osserva il comportamento di maggiore e minore quando arrivano in visita e gli effetti che la vita ha lasciato sulle scelte compiute. Le figlie della minore saranno le uniche a non trascinarsi il fardello della colpa e a smuovere nuove predisposizioni verso il futuro. Il maggiore invece resiste nel ricordo, quasi fosse la sua unica possibilità di sopravvivenza.

Ultimo svolge inconsapevolmente il ruolo di conciliatore, il sopravvissuto che vivendo all’ombra dei racconti narrati e alle conversazioni confidenziali col fratello assente riesce a riportare nei gesti del quotidiano una serenità perduta, persino il senso dell’ironia nel padre e nella madre che nomineranno la loro prole con “ferito”, “ribelle”, “inadatto”, “stregone”, e il giudizio “proprio un bel lavoro”.

Un racconto poetico e struggente che evidenzia senza fingimenti i diversi volti del dolore e delle faticose capacità di adattarsi ad esso, nella perenne ricerca del senso nuovamente possibile anche quando pare che una forza devastatrice proietti in un mondo tagliato fuori dal mondo, sul bordo dell’abisso, tra un tempo spensierato trascorso e un avvenire terribile.